Russiagate, ora il clan Obama trema

  • Postato il 30 agosto 2025
  • Di Panorama
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Il Russiagate è tornato al centro dell’attenzione. A inizio agosto, la procuratrice generale degli Stati Uniti, Pam Bondi, ha ordinato di aprire un’indagine penale per appurare se i vertici dell’amministrazione Obama siano stati coinvolti in questa controversa vicenda che, nonostante il clamore mediatico con cui fu accompagnata ai suoi tempi, si è poi risolta in una bolla di sapone. Ricordiamo che, durante il suo primo mandato, Donald Trump fu de facto tacciato non solo di essere stato aiutato dalla Russia a vincere le elezioni del 2016 ma addirittura di «collusione» con il Cremlino. Un teorema che non ha retto alla prova del rapporto investigativo consegnato dal procuratore speciale Robert Mueller nel marzo 2019: quest’ultimo, pur sostenendo che Mosca avrebbe interferito in quella tornata elettorale tramite Twitter e trafugando delle email, non rinvenne infatti prove di un coordinamento tra il team di Trump e il Cremlino.

Il sospetto che il Russiagate sia stata una polpetta avvelenata appositamente confezionata dall’amministrazione Obama si sta facendo sempre più fondato. Trump ha tacciato l’ex presidente dem di «tradimento», mentre il diretto interessato ha replicato parlando di accuse «insensate». Tuttavia, a chiamare in causa la sua amministrazione sono stati documenti desegretati in due fasi: una nel 2020 e un’altra a luglio di quest’anno. Tutto questo, senza trascurare il rapporto investigativo del procuratore speciale, John Durham, redatto nel 2023.

Ma andiamo con ordine. Durante un’audizione alla Camera nel luglio 2017, il direttore dell’Intelligence nazionale dell’era Obama, James Clapper, dichiarò: «Non ho mai visto alcuna prova empirica diretta che la campagna di Trump o qualcuno al suo interno stesse complottando o cospirando con i russi per interferire nelle elezioni». Clapper aggiunse di aver avuto in mano soltanto delle «prove aneddotiche». Eppure, era il 31 luglio 2016 quando l’Fbi, all’epoca guidato da James Comey, aprì l’inchiesta Crossfire Hurricane, per appurare se il team dell’allora candidato repubblicano si fosse macchiato di collusione con Mosca.

Il rapporto di Durham ha sottolineato varie criticità di quell’indagine. Innanzitutto, ha stabilito che, sulla base delle scarse prove disponibili, l’inchiesta non avrebbe dovuto essere aperta. In secondo luogo, Durham ha rilevato elementi di pregiudizio politico da parte degli agenti federali che facevano parte dell’indagine: già nel 2018, l’ispettore generale del dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, aveva del resto scoperto che uno di loro, Peter Strzok, aveva mandato un messaggio alla sua amante, nell’agosto 2016, scrivendo che avrebbe «fermato» Trump.

In terzo luogo, Durham ha sottolineato che i federali ottennero dai magistrati i mandati di sorveglianza ai danni del team dell’allora candidato repubblicano, facendo leva sul dossier dell’ex spia britannica Christopher Steele: un documento secondo cui Trump sarebbe stato ricattato da Vladimir Putin.

Peccato che, nel 2017, fu scoperto che tale incartamento era stato in parte finanziato dalla campagna di Hillary Clinton. Non solo. Già nel 2016 circolavano dubbi sulla sua fondatezza: Durham ha evidenziato che fu usato dai federali senza che i suoi contenuti fossero prima verificati.

Il procuratore ha inoltre riferito che la principale fonte del documento era Igor Danchenko: un cittadino russo che, tra il 2009 e il 2011, era stato sotto indagine dello stesso Fbi per sospetti legami con i servizi segreti di Mosca. In tutto questo, a fine luglio 2016, il Bureau era entrato in possesso di alcuni documenti, secondo cui la Clinton avrebbe «approvato» un piano per collegare falsamente Trump a Mosca: documenti della cui esistenza lo stesso Obama venne informato il 3 agosto 2016. Non era e non è ancora chiaro se tali incartamenti contengano informazioni autentiche. La Cia, nel settembre 2016, esortò l’Fbi a fare luce in tal senso. Eppure, secondo Durham, i federali lasciarono che la cosa cadesse nel dimenticatoio. Sempre nell’ambito di Crossfire Hurricane, il Bureau aprì un fascicolo sul generale Mike Flynn, che Trump avrebbe poi nominato consigliere per la Sicurezza nazionale. A finire sotto la lente dei  federali furono delle conversazioni che, a dicembre 2016, Flynn aveva avuto con l’allora ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak.

Il 4 gennaio 2017, il Bureau chiuse tuttavia l’indagine su Flynn per assenza di «informazioni dispregiative». Eppure, poche ore più tardi, l’inchiesta fu riaperta proprio da Strzok.

Il giorno dopo, si tenne una riunione alla Casa Bianca, a cui presero parte, tra gli altri, Obama, Joe Biden, Clapper, Comey e la viceministra della Giustizia, Sally Yates. Nonostante alcune note di Comey avessero ritenuto legittime le comunicazioni tra Flynn e Kislyak, in quel meeting si discusse dell’eventualità di incriminare il generale ai sensi del Logan Act, che vieta negoziazioni tra cittadini americani non autorizzati e governi stranieri: si tratta di una legge del 1799 per la cui violazione non è mai stato condannato nessuno. Obama stesso ordinò che fossero messe «le persone giuste» a indagare su Flynn. La Yates, dal canto suo, rimase sorpresa, quando fu proprio Obama a renderla edotta delle intercettazioni relative al generale: l’Fbi dovrebbe infatti far capo al dipartimento di Giustizia e non alla Casa Bianca. Flynn fu quindi interrogato dai federali il 24 gennaio, pochi giorni dopo essere entrato in carica come consigliere per la Sicurezza nazionale.

Le note del Bureau relative a quell’interrogatorio, datate 30 gennaio 2017, descrissero il generale come «aperto e collaborativo». «L’Fbi ha avvertito che, sulla base di questo interrogatorio, non credeva che il generale Flynn agisse come un agente della Russia», si legge anche. Eppure, in quei giorni, furono fatte trapelare alla stampa informazioni riservate sui suoi colloqui con Kislyak. Il che determinò un putiferio che avrebbe portato alle dimissioni del generale il 13 febbraio. Flynn finì poi anche nel mirino del procuratore speciale Mueller. È vero che, a dicembre 2017, si dichiarò colpevole davanti a lui di aver mentito ai federali. Va però anche ricordato che, secondo la Cnn, Mueller era pronto a mettere sotto indagine suo figlio. E che comunque il generale, a gennaio 2020, chiese di ritrattare la sua ammissione di colpevolezza. 

Ma non è tutto. Lo scorso luglio, la direttrice dell’Intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, e il direttore della Cia, John Ratcliffe, hanno desegretato alcuni documenti relativi a un’analisi d’intelligence che, pubblicata il 6 gennaio 2017, sosteneva che il Cremlino aveva interferito per aiutare Trump durante la campagna elettorale del 2016. Va detto che tale conclusione fu confermata, nel 2020, da un report bipartisan del Senato. Tuttavia, bisogna fare attenzione.

I documenti desegretati dalla Gabbard mostrano che, l’8 dicembre 2016, la comunità d’intelligence discusse la bozza di un briefing presidenziale, in cui si affermava che «gli attori russi e criminali non hanno influenzato i recenti risultati delle elezioni statunitensi conducendo attività informatiche dannose contro le infrastrutture elettorali». Eppure, nel medesimo giorno, l’Fbi fece cassare quella bozza. Il 9 dicembre, lo stesso Obama ordinò a Clapper di preparare una nuova analisi che, come sottolineato da Ratcliffe, fu redatta in fretta e furia, oltre che con l’insolito coinvolgimento diretto dei capi delle agenzie di intelligence.

Si arrivò così all’analisi del 6 gennaio, secondo cui, per l’appunto, Putin avrebbe cercato di favorire Trump: un’analisi che tuttavia, stando alla Gabbard, «contraddiceva direttamente le valutazioni della comunità d’intelligence effettuate nei sei mesi precedenti». Non solo.

Ratcliffe ha anche sottolineato che fu l’allora capo della Cia dell’era Obama, John Brennan, a insistere affinché in quel documento fosse allegato il Dossier di Steele: e questo, nonostante Brennan, a fine dicembre 2016, fosse stato esplicitamente avvertito da un funzionario della sua scarsa attendibilità. Le domande quindi fioccano. Perché, nonostante i federali non avessero rinvenuto «informazioni dispregiative» su di lui, i vertici del Bureau riaprirono l’indagine su Flynn? Perché Obama in  persona ordinò di mettere a indagare sul generale le «persone giuste»?

Perché, nonostante gli agenti che lo avevano interrogato non lo ritenessero un agente russo, Mueller lo mise nel mirino? Per quale ragione l’Fbi non verificò l’eventuale autenticità dei documenti che accusavano la Clinton di aver «approvato» un piano per collegare falsamente Trump a Mosca? Perché il Bureau usò un documento non verificato come il dossier di Steele per ottenere mandati di sorveglianza ai danni dell’allora candidato repubblicano? Per quale ragione Brennan volle che quel documento infondato fosse allegato nell’analisi di intelligence del 6 gennaio 2017?

Autore
Panorama

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