Scappati coi soldi, tra i bar lussuosi di Beirut o fuggiti in Russia: dove sono finiti i gerarchi di Assad

  • Postato il 27 ottobre 2025
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È la mezzanotte dell’8 dicembre 2024 in Siria e una telefonata sveglia Bassam Hassan, uno dei gerarchi del regime di Bashar al Assad. “Lui non c’è più: è già andato via” gli dice la voce dall’altro capo del telefono, intendendo che il presidente è fuggito, non è più a Damasco. Il magazine Die Zeit, una decina di giorni fa, ha ricostruito la vita fra “videogiochi e lusso” dell’ex presidente siriano in esilio a Mosca. Molto si è scritto anche sul fratello Maher, oggi al riparo nella capitale russa, e fino ad un anno fa alla guida della quarta divisione dell’esercito e dei traffici di Captagon che hanno mantenuto in piedi “il narcostato siriano”.

Ma in quella stessa notte centinaia di gerarchi, alti ufficiali che hanno fatto parte della cerchia del potere che ha tenuto in piedi il sistema repressivo di regime, impersonificato da Hafez al Assad e, successivamente, dal figlio Bashar, svaniscono nel nulla. Chi a bordo di un motoscafo nel Mediterraneo, chi con un volo verso la Russia o l’Iran. Mentre altri si sono rifugiati nelle loro dimore sulla costa siriana, nascosti nell’enclave più fedele al vecchio regime. È la ratline siriana, la via di fuga – come quella che nel secondo dopoguerra portò molti gerarchi nazisti a sfuggire alla giustizia.

A provare a riannodare le fila è stato il New York Times, tramite un lavoro di indagine in cui ha tentato di rintracciare il destino di 55 alti funzionari del governo siriano di Assad. Riuscendo a confermare la posizione attuale di soli dieci ufficiali, fuggiti dal paese quella notte. Nelle prime ore dell’alba dell’8 dicembre i ribelli siriani, guidati da Ahmad al Sharaa, stanno entrando a Damasco. Pochi giorni prima, questo variegato fronte d’opposizione, composto anche da elementi fondamentalisti, era partito dal nord e aveva preso il controllo del paese. Città dopo città. L’ex presidente – riporta il New York Times – e il suo entourage sono già arrivati nella base militare aerea russa di Hmeimim, sulla costa del paese. Li c’è un aereo per la Russia che li aspetta.

Ma nella capitale quelle ore sono frenetiche. Qahtan Khalil, direttore dell’intelligence dell’aeronautica siriana, viene tempestato di chiamate da altri funzionari e ufficiali. “Vogliamo fuggire”. Khalil trova la soluzione: fa preparare un jet privato Yak-40 che decolla dall’aeroporto di Damasco intorno all’1:30 del mattino dell’8 dicembre. Immagini satellitari confermano la presenza del velivolo sulla pista nei giorni precedenti. Per poi riapparire a Hmeimim poco dopo. A bordo c’è anche un funzionario del palazzo presidenziale. “I passeggeri erano nel panico,” ricorda l’uomo, parlando con il quotidiano americano. “Il volo era durato solo mezzora, ma quella notte ci sembrò infinita”.

A Damasco, in un’altra parte della città, il fratello di al-Assad, Maher — capo della temuta Quarta Divisione dell’esercito siriano — si affrettava ad organizzare la propria fuga. Chiama un amico e un socio in affari. Li esorta a lasciare immediatamente le loro case e aspettarlo. Li passa a prendere e sfreccia a prendere il suo volo. Hmeimim è l’aeroporto militare russo in Siria: avamposto strategico del Cremlino che li ha scaricato mezzi e armi non solo per il suo alleato, Assad, ma per la rete di milizie da questi supportati in Medioriente. In quelle ore del mattino c’è caos. Lo dicono alcuni testimoni. Ci sono persone che si dirigono verso la base con borse piene di oro e contanti. Fuori dai cancelli, uniformi militari siriane gettate a terra.

Altri soldi, circa 1 milione e 360mila dollari, li prende dal caveau del suo quartier generale Hossam Louka, ufficiale siriano accusato di supervisionare le detenzioni di massa e torture. Secondo i testimoni sentiti dal New York Times, Louka era conosciuto per la sua reverenza nei confronti del presidente: “Non avrebbe spostato nemmeno un posacenere da qui a lì senza chiedere il permesso di Bashar” raccontano. In quei momenti, circa tremila uomini dei servizi d’intelligence generale – Al-Mukhabarat al-‘Amma – rimangono in stato di allerta: aspettano il segnale di Louka per il contrattacco. Non arriverà mai. Mentre il milione di dollari e Louka si crede abbiano preso il volo per la Russia.

A prendere altri soldi è Kamal al-Hassan – un altro alto ex funzionario. Apre la cassaforte nel suo ufficio e prende un disco rigido e del denaro. Al-Hassan, capo dell’intelligence militare, è accusato di aver supervisionato arresti di massa, torture ed esecuzioni di detenuti. Ma la sua fuga è rocambolesca. Viene infatti ferito in una sparatoria con i ribelli mentre cercava di lasciare la sua casa in un sobborgo di Damasco. Si nasconde di casa in casa, raccontano le fonti sentite dal Times, fino a raggiungere l’ambasciata russa.

Un altro che trovò rifugio nell’ambasciata russa fu il generale Ali Mamlouk, ex direttore della sicurezza nazionale, noto per aver orchestrato il sistema di arresti di massa, torture e sparizioni forzate che ha caratterizzato il sistema repressivo siriano.

Mamlouk, riportano le fonti, apprese del crollo del regime solo intorno alle quattro del mattino. Così, organizzò un convoglio in direzione della sede diplomatica del Cremlino ma venne coinvolto in una sparatoria da cui uscì illeso. Lui e al-Hassan sono poi rimasti nascosti insieme all’interno dell’ambasciata fino a quando un convoglio protetto non li ha poi portati alla base di Hmeimim. Un aereo li avrebbe successivamente condotti a Mosca, confermarono le fonti al Times.

A non fare molta strada è Bassam Hassan, accusato di una lunga lista di crimini: dal coordinamento degli attacchi con armi chimiche del regime al rapimento del giornalista americano Austin Tice. Oggi vivrebbe a Beirut nell’ambito di un accordo in cui avrebbe fornito informazioni ai servizi di intelligence americani. I suoi conoscenti raccontano che passa il tempo nei caffè e nei ristoranti eleganti insieme alla moglie.

Tutto questo accade mentre i siriani cercano fantasmi appartenenti a un sistema repressivo durato cinquanta anni. Persone che guidavano la macchina della repressione e che oggi risultano introvabili, anche se ricercati da mezzo mondo.

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