Se gli intellettuali woke cambiano idea
- Postato il 6 giugno 2025
- Di Panorama
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Dopo che la cosa è largamente sfuggita di mano e ha causato danni irreparabili, hanno deciso di prenderne le distanze, addirittura ne rinnegano la paternità. La cosiddetta cultura della cancellazione e il wokismo sono stati (e in parte sono tuttora) due delle peggiori patologie culturali degli ultimi decenni. Sono la malattia senile – e terminale – del politicamente corretto, l’approdo macabro del sogno proibito di cambiare la realtà modificando le parole e di costruire l’uomo nuovo imponendo un cambiamento radicale dei comportamenti.
Che cosa abbia prodotto tutto ciò è noto: censure a non finire, folli operazioni di riscrittura dei grandi classici della letteratura, messa al bando di personalità influenti del mondo culturale e delle spettacolo per una frase uscita male. Aveva ragione il grande intellettuale francese Richard Millet quando parlava dell’antirazzismo come terrore letterario. Da dove questa feroce ondata inquisitoria sia scaturita è noto: dalla presunzione di superiorità morale propria della cultura progressista e liberal, dall’idea che si possa – anzi, si debba – raddrizzare il legno storto dell’umanità. Come sempre accade con questo genere di progetti, l’epilogo è tragico. Ed è certo un bene che molti, anche a sinistra, abbiano iniziato a rendersi conto di quanti danni abbia prodotto il wokismo, ma un conto è riconoscere i propri errori, un altro fare finta di non averli mai commessi o negare ogni responsabilità in merito.
Susan Neiman, direttrice dell’Einstein Forum di Potsdam, in Germania, forte di una carriera tra Harvard e Yale, ha ottenuto notevole riscontro pubblicando un saggio intitolato La sinistra non è woke, pubblicato ora in Italia da Utet. Ebbene, la gentildonna in questione sostiene che il fenomeno woke sia estraneo all’universo progressista: «Quello che si sta facendo qui non è di sinistra. Per molti aspetti ha più in comune con il conservatorismo e persino con il fascismo, rendendo le identità tribali primarie. Tutto ciò è in realtà piuttosto reazionario», ha dichiarato alla rivista Prospect.
«L’universalismo è il principio fondamentale che distingue la sinistra dalla destra, e lo è sempre stato. La destra crede che le uniche persone verso cui si abbiano veri legami e obblighi siano i membri della propria tribù». «Fin dall’Illuminismo» prosegue Neiman, «liberali e progressisti hanno insistito sull’esistenza di un’umanità comune che va oltre le differenze di tribù e clan. Questo non significa che le storie particolari non siano interessanti e importanti. Ma ciò che è politicamente più importante è una dignità umana comune che deve essere rispettata e che può essere riscontrata in chiunque, ovunque. Ora, qui dobbiamo addentrarci un po’ nella teoria. La cosiddetta teoria postcoloniale, che si basa su teorici come Michel Foucault, anche tra chi non legge testi teorici, sostiene che l’idea stessa di universalismo sia una farsa eurocentrica per gettare fumo negli occhi del resto del mondo. Questo è totalmente sbagliato, perché i più importanti pensatori illuministi credevano che i principi umanistici avessero un’applicazione universale. Furono i primi oppositori del colonialismo e della schiavitù».
Se superficialmente questo ragionamento può sembrare persino condivisibile, la verità è che la Neiman mistifica. È proprio l’illuminismo, con la sua pretesa di correggere i mali dell’umanità tramite il trionfo di una ragione posticcia, ad aver creato le basi per le teorie critiche e le decostruzioni che Foucault e altri avrebbero elevato a sistema. In generale, il progressismo in quanto forma di gnosticismo politico ha rappresentato il primo tentativo riuscito o comunque il più clamoroso di presa del potere da parte di una élite intellettuale che pretendeva di risanare il mondo, finendo ovviamente per scatenare il terrore.
Il libro della Neiman è forse il più clamoroso esempio di dissociazione fuori tempo massimo, ma non è il solo. Se negli ultimi anni ci siamo dovuti sorbire una montagna di opere, film, serie tv e romanzi totalmente incentrati sul tema della diversità (una clamorosa ondata di glorificazione delle minoranze e celebrazione delle loro pretese), ora l’aria sembra cambiata. Percival Everett, scrittore nero autore di un paio di libri critici del wokismo, tra cui il profetico Cancellazione, ha vinto il premio Pulitzer. Yellowface di R.F. Kuang è divenuto un bestseller grazie a un buon contenuto satirico che prende di mira la cosiddetta appropriazione culturale e altri tic del progressismo tribale. Ultimamente ha incontrato un certo successo anche in Italia, dove era passato abbastanza inosservato. Il romanzo più efficace e rappresentativo di questa nuova tendenza è però Vittima di Andrew Boryga, appena tradotto dall’editore 66thand2nd. È la storia di un giovane dalla pelle scura che, per diventare autore di successo, inventa una serie di balle piuttosto clamorose riguardo al suo passato, facendosi appunto passare per vittima dell’oppressione bianca e del razzismo sistemico. Ci sono in effetti passaggi esilaranti, in cui il protagonista racconta dall’interno il mondo dell’attivismo e gli ambienti intellettuali di sinistra statunitensi. A un certo punto, partecipa a una sorta di seduta di autocoscienza. «Subito una ragazza che si era presentata come Claudia ha alzato la mano. “Va bene. Cioè, se nessun altro vuole parlare, vado io”. Ha raccontato la storia di un piccolo progetto di gruppo per il suo corso di Italiano. Era stata messa a collaborare con due bianchi. “Maschi bianchi”. Lì la stanza è stata tutta un gemito. Mentre due giorni prima stavano discutendo le linee guida del progetto al bistrot del campus, ha detto Claudia, uno dei ragazzi aveva chiesto perché mai lei stesse studiando italiano. “Se fossi in te, mi iscriverei a Spagnolo e farei il minimo sforzo” ha riferito Claudia imitando la vocetta nasale di lui. […] Claudia respirava lentamente, dentro, fuori, come stesse raccontando la storia strappacuore di un faccia a faccia con la morte. “Cioè, avete capito? Uno, dài per scontato che io parli spagnolo, e non lo parlo. E due, che c’è, siccome sono scura di pelle allora non posso migliorare me stessa e imparare cose nuove? Mi hanno ferito”. Anais ha allungato la mano a strofinare la spalla di Claudia. Ci sta, amica. Sfogati pure”. Ricardo ha ringraziato Claudia per aver condiviso. Quella me la sono segnata. Non avevo mai visto nessuno prendere qualcosa di tanto piccolo e trasformarlo in un tale dramma. Quanta maestria».
Più avanti nella storia, il protagonista riesce a ottenere una rubrica su un giornale: «Grazie alle tattiche con cui Anais aveva messo sotto pressione il direttore del giornale – una mail che gli aveva mandato che prometteva proteste frequenti e prolungate e pubblicità negativa se la mia candidatura non fosse stata tenuta in considerazione e le “barriere insensate, oltre che nocive e classiste” non fossero state rimosse in modo da permettermi di avercela, una rubrica – la mia proposta ha superato a gonfie vele la prima selezione. Anais e io avevamo lavorato al titolo, Brown Boy Observes, “Ragazzo scuro osserva”, e avevamo trovato una breve definizione di massima: “Uno studente di minoranza che si fa strada nell’università e in un mondo dominato dalla supremazia dei bianchi ci offre la sua preziosa analisi della vita quotidiana al campus, sfidando lo status quo, portando testimonianza, e alzando la testa davanti al potere”. Io lo trovavo un filino ridicolo, e non sapevo davvero di cosa stessi “portando testimonianza”, ma ha funzionato».
Boryga non è certo un uomo di destra, anzi scrive sul New York Times e altre testate di area progressista. E proprio qui sta il problema. Se è un bene che anche gli autori di sinistra stiano iniziando a prendere le distanze dal bolso politicamente corretto che sta distruggendo persino Stephen King (basti leggere l’ultimo Never Flinch), è anche vero che questi tentativi di emancipazione dal wokismo appaiono un filo ipocriti, proprio perché prodotti da autori che grazie al wokismo sono emersi e hanno prosperato. Si può fare di meglio, però, che limitarsi a notare le contraddizioni. Si può ad esempio leggere le opere di autori – anche liberal – che il Pol. Cor. lo hanno sempre sfidato senza timore, a partire da Philip Roth (di cui Adelphi sta ripubblicando l’opera), cioè il primo a notare l’emergere della cancel culture e a deprecarla. Discorso analogo vale per la raffinata e strepitosa Yasmina Reza, di cui sempre Adelphi ha mandato in libreria lo splendido La vita normale. Per restare contemporaneamente in Francia e nella scia di Roth vale recuperare Il veggente d’Etampes di Abel Quentin, altro splendido e affilato romanzo sulle conseguenze nefaste della cultura «illuminata».
Autori capaci di sfidare le ideologie e le chiusure mentali esistono da sempre, e alcuni ne hanno pagato le spese venendo cancellati a loro volta o comunque oscurati. Ora qualcuno cerca di imitarli anche per lavarsi la coscienza, o per adattarsi al declino del wokismo. Il paragone però non regge ed è perfino ridicolo.
E a fare giustizia penserà l’unica cancellazione seria: quella della Storia, al cui vaglio resistono solo i capolavori veri. n