“Se un jeans viene prodotto a 3€, qualcosa non funziona”: arriva la piattaforma di controllo del Made in Italy con un algoritmo anti-caporalato

  • Postato il 12 ottobre 2025
  • Moda E Stile
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Luci e ombre. Mentre sulle passerelle si celebra l’artigianato e il “saper fare”, le inchieste della Procura di Milano, che da oltre un anno e mezzo scoperchiano casi di sfruttamento nella filiera che produce per i colossi del lusso, raccontano un’altra storia. Loro Piana, Dior, Armani, Valentino, Alviero Martini e ora, ultimo in ordine di tempo, Tod’s. Il copione è sempre lo stesso: subappalti a cascata, fabbriche gestite da lavoratori extracomunitari senza contratto, paghe da fame, orari massacranti e condizioni di sicurezza inesistenti. Opifici cinesi, per i pm, in cui si riscontrano “lavoro notturno e festivo, luoghi di lavoro fatiscenti, dove si lavora, si mangia e si dorme”.

Prima di Tod’s erano finiti sotto indagine la Giorgio Armani Operation spa (per cui era stata revocato il provvedimento dopo un “percorso virtuoso”, ndr). A maggio invece era finita in amministrazione giudiziaria la Valentino Bags Lab, società di produzione di borse e accessori. Nel 2024 la Procura di Milano aveva chiesto e ottenuto i commissariamenti anche di Alviero Martini, Armani operations appunto e Manufactures Dior, poi revocati dopo che le società hanno adottato contromisure.

“Il problema è la sostenibilità economica e sociale della filiera”, ci spiega Massimo Bollini, sindacalista della Filctem Cgil di Firenze che segue da vicino la situazione. “Se vogliamo evitare che qualcuno, per rientrare nei costi, ricorra all’illegalità, bisogna rendere quanto riconosciuto dai brand in linea con questa sostenibilità. È un punto fondamentale per la difesa del Made in Italy”. Il rischio, avverte, è un danno reputazionale enorme: “Se si scopre che dietro le sapienti mani ci sono lavoratori sfruttati, mettiamo in discussione gli investimenti stessi in questo Paese”.

Perché succede: costi, volumi, modello di approvvigionamento

La fotografia industriale è cambiata. Come spiega Bollini, “non si vede ancora una vera ripresa: i volumi produttivi ristagnano da oltre due anni”. Nel post-pandemia i marchi hanno corretto la strategia: meno sovrapproduzione, più selettività sugli ordini. Risultato: ordini più magri e intermittenti lungo la catena, aziende artigiane in sofferenza di cassa, e il rischio (soprattutto negli ultimi anelli) di scivolare nell’illegalità pur di “starci” con i conti. A ciò si sommano l’erosione della classe media (prezzi retail cresciuti, platea più stretta) e la concorrenza dell’ultra fast fashion: prezzi irrisori, effetti sociali e ambientali devastanti.

La risposta di sistema: il “Protocollo per la legalità” e la piattaforma di filiera

Come arginare la situazione, quindi? L’idea del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso è quella di una legge che preveda una “certificazione preventiva che possa garantire che tutto si svolga sul piano della legalità ambientale, sociale e lavorativa”, perché non si può mettere “in discussione” il “Made in Italy” che “rappresenta una delle eccellenze del nostro paese più forti in termini di competitività mondiale”. Al momento, però, l’unica misura in campo è il Protocollo per la Legalità dei contratti di appalto nelle filiere produttive della moda, un’iniziativa della Prefettura e del Tribunale di Milano sottoscritta il 26 maggio da tutto il sistema moda.

“L’obiettivo è proteggere chi lavora bene e mettere in un angolo chi ha comportamenti da caporalato”, ci spiega il professor Andrea Sianesi, docente di Operations and Supply Chain Management al Politecnico di Milano, membro del tavolo tecnico. Il sistema si basa su due pilastri. Il primo è un principio contrattuale a cascata: chi sta a valle nella filiera si impegna a rispettare la legalità e a far rispettare le stesse regole a chi sta a monte. Il secondo, e più innovativo, è la creazione di una piattaforma digitale dove il “capofiliera” (l’azienda che ha il contatto diretto con il brand) deve mappare e registrare tutti i suoi subfornitori. A ciò si aggiunge la definizione di tempi di produzione di riferimento per ogni articolo: “Se stabiliamo che per fare un jeans ci vuole un’ora di lavoro”, conclude Sianesi, “è evidente che se un’azienda riceve un ordine per quel jeans pagato 3 euro, c’è qualcosa che non funziona”. La piattaforma farà accendere un “semaforo rosso” di fronte a queste incongruenze, diventando uno strumento per audit più mirati e, si spera, per una filiera finalmente più giusta.

Cosa cambia davvero (e cosa no)

  • Clausole a catena: il fornitore “capofiliera” che riceve l’ordine dal brand si impegna contrattualmente al rispetto di legalità, sicurezza e lavoro regolare e a far replicare gli stessi impegni ai suoi subfornitori. Non è una legge, ma “se tutti si comportano correttamente, l’impegno percorre tutta la filiera”.
  • Piattaforma digitale + green list: le imprese si registrano, dichiarano struttura, manodopera, fasi produttive; il sistema genera una green list consultabile dai brand; un algoritmo segnala incongruenze (i “semafori”): utile per indirizzare gli audit dove serve davvero, dato che ispezionare tutto sempre è impossibile.
  • Trasparenza: la responsabilità di “mappare” la catena passa al capofiliera (non necessariamente il brand), che deve dichiarare chi fa cosa.
  • Priorità d’ispezione: gli alert della piattaforma selezionano i casi a maggior rischio (tempi/costi incoerenti, operatori non registrati).
  • Prevenzione: clausole e green list non blindano ogni abuso, ma alzano le barriere d’ingresso per chi vive di subappalti opachi.
  • Limite: senza margini congrui e senza competenze (formazione) l’illegalità trova comunque fessure. Qui servono volontà industriale e politica.

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Il Fatto Quotidiano

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