Sicilia: quando la sanità uccide
- Postato il 16 ottobre 2025
- Di Panorama
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La Sicilia è quella regione dove un paziente si può allontanare da un Pronto Soccorso di Palermo, ed essere ritrovato -cadavere- dopo 9 giorni, all’interno dello stesso ospedale. E ‘ la regione dove una malata di cancro aspetta 8 mesi gli esiti di un esame istologico, e quando arrivano è troppo tardi: le metastasi sono ormai troppo avanzate e le cure diventano inutili. La sanità siciliana uccide in silenzio: e in questi giorni la contabilità del dolore ha un nuovo, tragico bilancio. Maria Cristina Gallo, 56 anni, professoressa di Mazara del Vallo, è morta di cancro; la sua denuncia pubblica sui ritardi dei referti dell’Asp di Trapani aveva acceso i riflettori su un problema enorme, con più di tremila pazienti che hanno atteso per mesi i risultati dei propri esami, altre due morti sospette e un’inchiesta della Procura (diciannove medici indagati) scaturita proprio dalla sua denuncia. Ma la giustizia non è riuscita a salvarle la vita. Nel frattempo, a Palermo, Giovanni Cuvello, 73 anni, scomparso dal pronto soccorso di Villa Sofia, è stato ritrovato morto, giorni dopo, all’ottavo piano dello stesso nosocomio, dove nessuno si era accorto della presenza di un cadavere. Nelle stesse ore, nei palazzi del potere, il governo regionale guidato da Renato Schifani rischia di cadere, proprio a causa della sanità: ma non per queste, e tante altre, tragedie accadute negli ospedali della regione negli ultimi mesi, bensì per la sua volontà di rinnovare l’incarico di dirigente della Pianificazione Strategica dell’Assessorato alla Sanità al suo fedelissimo, Salvatore Iacolino (già deputato nazionale di Forza Italia). Proprio all’ufficio di Iacolino alcuni pazienti trapanesi in attesa da mesi dei referti degli esami istologici avevano mandato mail e pec per segnalare i ritardi: senza aver mai ricevuto risposta. Confermato al suo posto dal governatore Schifani con la seguente motivazione: “Ha lavorato bene”, contro il parere di FdI, il super dirigente non ha ritenuto opportuno fare alcuna dichiarazione pubblica di cordoglio il giorno della morte della professoressa Gallo. Così come non ha fatto nemmeno l’assessore alla Salute, Daniela Faraoni, né lo stesso Schifani. Come se la morte di una persona che ha atteso un esame istologico per otto mesi sia la normalità ineluttabile, e non “uno dei più grandi scandali di malasanità degli ultimi vent’anni” come disse Matteo Renzi nello scorso mese di Marzo, quando la notizia si diffuse in tutta Italia.
«Siamo stati lasciati soli fin dall’inizio» dice oggi Giorgio Tranchida, marito della professoressa Gallo. «Da parte delle istituzioni mai una telefonata, né una lettera, né tantomeno l’offerta di un supporto — logistico, economico, psicologico — o anche solo un gesto umano, una parola di scuse. Silenzio totale. Nessuno si è mai fatto vivo, e noi siamo rimasti a fronteggiare tutto da soli, come se fossimo trasparenti, come se non esistessimo».
Il primo ad accendere i riflettori sul caso era stato il vice presidente della Camera dei deputati, Giorgio Mulè -che per primo aveva portato alla ribalta nazionale il caso della professoressa Gallo, seguendo tutta la sua vicenda- e che è stato anche tra i pochissimi a ricordarla pubblicamente. «Non il caso e neppure la fatalità hanno deviato il corso della sua esistenza: Cristina è diventata simbolo, suo malgrado, di uno di quei casi che si definiscono di malasanità» ha dichiarato Mulè. «Pur essendo provata dalla sofferenza, non si è mai arresa. Ha combattuto la malattia e insieme una battaglia per cercare verità e giustizia. Ha combattuto soprattutto per aiutare gli altri.».
Già, perché proprio lei si era accorta che qualcosa non andava, nella procedura dei referti istologici di Mazara del Vallo, e che il suo non era solo uno “sfortunato” caso isolato, bensì la punta di un iceberg. «Abbiamo scoperto per caso, un giorno che mia moglie si era recata in ospedale per richiedere la sua cartella clinica, che c’erano più di tremila cartelle ferme in un armadio metallico, tutte ancora senza esami istologici» continua Tranchida. «Tremila persone come mia moglie, convinte che fosse tutto a posto, perché qualcuno diceva loro “stia tranquillo, quando arriva l’esito dell’esame la chiamiamo noi”. Ma non arrivava niente. Nessuna diagnosi, nessuna chiamata, nessuna allerta. Intanto la vita scorreva, le malattie avanzavano, e le istituzioni dormivano A quel punto noi abbiamo deciso di andare a Milano per le cure. Ci avevano anche detto che era stato istituito un fondo per le vittime di questo scandalo sanitario. Un fondo per sostenere le spese di chi si era trovato improvvisamente dentro un incubo. Ma non era vero niente: solo un annuncio, mai seguito da fatti. È un modo di fare che sa molto di cialtroneria politica e pochissimo di rispetto per la sofferenza delle persone».
Chi ha pagato, per tutto ciò? Praticamente, nessuno.