Silence is a gift: la resistenza silenziosa di Ciro Battiloro

  • Postato il 20 agosto 2025
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Silence is a gift: la resistenza silenziosa di Ciro Battiloro

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Ciro Battiloro, con “Silence is a Gift” è uno degli artisti ospiti del Fotografia Calabria Festival, giunto alla sua quarta edizione, dal primo agosto al 12 ottobre 2025, a San Lucido (Cosenza).

«PASOLINI che diceva che all’interno della famiglia accade ciò che di più brutto e di più bello l’essere umano riesce a realizzare, quindi la famiglia diventa un po’ uno specchio di quello che è la dimensione esistenziale dell’essere umano».

Ciro Battiloro, con “Silence is a Gift” racconta con sguardo partecipe e profondo le dinamiche familiari e comunitarie in quartieri popolari del Sud Italia, restituendo la densità affettiva di luoghi spesso marginalizzati. Proprio con “Silence is a gift”, Battiloro è uno dei artisti ospiti del Fotografia Calabria Festival, giunto alla sua quarta edizione, dal primo agosto al 12 ottobre 2025, a San Lucido (Cosenza). Lo abbiamo incontrato per approfondire i temi del suo lavoro.

Battiloro, come nasce il tuo progetto Silence is a Gift?

«In realtà Silence is a Gift è la raccolta di tre dei miei lavori che io ho proprio concepito come dei capitoli di una trilogia. Il progetto raccoglie il lavoro che ho realizzato a Rione Sanità di Napoli, un altro che ho realizzato al quartiere Santa Lucia di Cosenza e poi poche immagini di un lavoro in corso che sto facendo sulla provincia di Napoli, nell’area vesuviana. Successivamente c’è stata la scelta di unirli sotto quest’unico grande tema con il filo conduttore dei tre lavori che è quello dell’intimità e dell’infinità. Anche un po’ come una sorta di resistenza silenziosa. E da lì viene il titolo sia del lavoro che del libro che ho pubblicato, dove appunto c’è l’intimità e la casa, dove quello che accade in casa è una sorta di ultimo riparo da ciò che ci impone la società contemporanea e quindi l’omologazione, la violenza, la disuguaglianza sociale. Inoltre, è anche il riparo dalla crisi esistenziale e dallo scorrere del tempo che è comune a tutti».

Com’è stata la tua esperienza all’interno dei luoghi di ricerca, come sei stato accolto?

«L’aspetto fondamentale è il tempo perché si tratta di un lavoro che raccoglie immagini di circa sei anni. Ovviamente quella della mostra è una piccola selezione, quindi diciamo l’entrare in queste case in questi contesti è stato un lungo lavoro che si è sviluppato in corso d’opera. Per me è fondamentale la relazione col soggetto, le mie immagini non vogliono essere delle immagini rubate, ma devono essere delle immagini accolte dal soggetto che mi ha dato l’accesso all’intimità delle case e delle vite».

La tua è una fotografia che racconta il corpo all’interno di una relazione. Quanto è importante per te la famiglia, anche intesa in senso di comunità?

«Uno dei miei punti di riferimento a livello culturale e artistico è Pasolini che diceva che all’interno della famiglia accade ciò che di più brutto e di più bello l’essere umano riesce a realizzare, quindi la famiglia diventa un po’ uno specchio di quello che è la dimensione esistenziale dell’essere umano e per me è molto affascinante. Nell’entrare in casa tu scopri l’unicità di ogni essere umano anche nelle piccolissime cose ed è, come hai ben notato tu, centrale poi all’interno del mio lavoro. C’è da dire poi che quel linguaggio del corpo è così particolarmente intenso, così particolarmente forte, perché i luoghi dove io sono andato a fotografare sono luoghi in cui le persone hanno delle vite essenzialissime, dove ci sono delle problematiche sociali, delle difficoltà, ma allo stesso tempo quello crea una sorta di reazione, crea una ricchezza, fondamentalmente, ed è quello che ho voluto fare col lavoro nel sovvertire la narrazione che c’è in questi contesti e sottolineare la ricchezza umana legata all’autenticità delle relazioni, quelle vissute, quelle perse, che diventa un lavoro sull’amore, sulla solitudine e sullo scorrere del tempo. Io nel tempo ho visto crescere ed invecchiare i soggetti delle mie fotografie».

Visto che hai citato Pasolini vorrei quali sono i tuoi riferimenti nel tuo lavoro, sia quelli culturali sia quelli fotografici.

«Da un punto di vista culturale sicuramente Pasolini ed il teatro di Eduardo De Filippo. Poi ho letto molto la filosofia francese ed in particolare Simone Weil. A livello fotografico Chris Killip, Mary Ellen Mark, Dave Heath e Joseph Koudelka. Questi sono proprio gli irrinunciabili».

Ho sentito molta emozione nei tuoi silenzi. Qual è la componente emotiva nel tuo lavoro?

«Per me l’emozione è importante e lo è anche la componente empatica ed emotiva. Un’emotività semplice, nel senso che può essere anche un po’ retorico soffermarsi solo sull’aspetto emotivo, ma si tratta di un’emotività che mi piace definire un po’ più sottile, nel senso che la leggi nelle immagini, anche volta per volta, e poi ci sono cose che si rivelano successivamente dopo aver riguardato il lavoro, averlo visto in una certa in una certa sequenza. Sicuramente l’immagine deve per me emozionare in qualche modo, anche perché è ciò che ho provato io nell’esperienza del fotografare. Non vuole essere una fotografia oggettiva ma vuole essere una fotografia in cui c’è comunque uno scambio di emozioni, uno scambio triplice se vuoi, perché innanzitutto c’è quello mio col soggetto che è soggetto verso di me, poi, ovviamente quello che diventerà il lavoro fotografico ed intercetterà un terzo elemento che sono i fruitori lavoro e quindi crea un ponte tra chi vedrà il lavoro e chi è nel lavoro. L’idea è quella di aprire una porta su queste vite e questi mondi».

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