Sono tutti contenti per non aver deciso niente sull’Ilva. E Taranto resta senza certezze
- Postato il 9 luglio 2025
- Di Panorama
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Dopo otto ore di incontro con Regione, Comune, e altre istituzioni locali il ministro Adolfo Urso parla di una giornata storica per Taranto e per la siderurgia italiana. Ma se da un lato ci sono parole di speranza, dall’altro le ombre che continuano ad aleggiare sull’ex Ilva sono pesanti.
Due ipotesi sono sul tavolo, ma entrambe comportano enormi sfide come ha spiegato il ministro. La prima prevede la realizzazione a Taranto di tre forni elettrici, alimentati da tre impianti di preriduzione del ferro (Dri), che richiederebbero una nave rigassificatrice per garantire l’approvvigionamento di gas. Una soluzione tecnica complessa, ma che potrebbe assicurare la continuità produttiva, mantenendo i livelli occupazionali. La seconda, meno ambiziosa, propone di spostare la produzione di Dri in un’altra località, (probabilmente Gioia Tauro). In questo caso, ovviamente, l’impatto sugli 8.500 lavoratori dell’impianto sarebbe enorme. Per non parlare dell’indotto.
La realtà è complessa. Dopo l’incendio del 7 maggio, che ha danneggiato l’Altoforno 1 e ha portato al suo sequestro da parte della Procura di Taranto, la produzione ha subito un crollo drammatico. La situazione si è aggravata con il fermo programmato dell’Afo 4, l’unico altoforno rimasto attivo, dal 7 al 10 luglio. Oggi, il rischio di non raggiungere nemmeno la soglia di due milioni di tonnellate di acciaio nel 2025 è concreto. Impossibile il traguardo delle sei milioni di tonnellate stabilito nell’Accordo di programma.
Le trattative con Baku Steel, l’investitore azero che sembrava destinato a risollevare la situazione, sono al punto morto. Nonostante i commissari di Acciaierie d’Italia abbiano smentito un disimpegno totale, l’incertezza sull’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e sugli impegni presi nell’Accordo di programma pongono un freno alla trattativa. E nel mentre, cresce la preoccupazione per il piano alternativo che prevede il trasferimento di parte della produzione, e in particolare l’impianto Dri, a Genova, ridimensionando drasticamente Taranto. Un’ipotesi che fa tremare i lavoratori e le associazioni locali, che vedono in questa mossa una possibile desertificazione industriale della città.
Dal sindacato altri allarmi. La richiesta di una gestione pubblica o partecipata dell’impianto resta una priorità per le sigle Fim, Fiom e Uilm, che hanno denunciato l’insufficienza dei 200 milioni di euro previsti per la manutenzione degli impianti e per il rilancio produttivo.
Ma la proposta di una nazionalizzazione, sostenuta anche da alcune forze politiche di opposizione, si scontra con la posizione del ministro Urso, che ha richiamato l’articolo 43 della Costituzione per escludere l’esproprio dell’impianto, ritenendo l’Ilva non una delle aziende nazionalizzabili per legge.
Il nodo, insomma, resta sempre lo stesso: come coniugare le necessità ambientali con quelle occupazionali e industriali? Il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha sottolineato più volte la necessità di un «ragionamento serio» che non scarichi tutto sul territorio. «Taranto non può continuare a essere il capro espiatorio di un settore che fa fatica a evolversi», ha detto,
Da parte sua, Urso ha fatto un richiamo diretto a Taranto: «Non possiamo legare il destino della siderurgia italiana alle non decisioni di altri». Le parole del ministro sembrano un ultimatum. E sebbene l’appuntamento del 15 luglio con i sindacati rappresenti un’opportunità per trovare una soluzione, il tempo stringe e il rischio di perdere l’ennesima occasione sembra sempre più tangibile.
Le prossime settimane saranno decisive. Non solo per il futuro dell’Ilva, ma per il futuro di Taranto, che sembra vacillare nell’incertezza. La città, che ha vissuto per decenni sull’alternativa tra l’industria pesante e l’ambiente, ora si trova di fronte a una domanda cruciale: riuscirà a trovare una via d’uscita dalla crisi, o assisteremo alla sua definitiva trasformazione in un deserto industriale, con ripercussioni gravissime sul piano sociale ed economico?