Sui social più bot che persone: il sorpasso è realtà

  • Postato il 22 giugno 2025
  • Di Panorama
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Frequentate Instagram, Facebook o TikTok? Chattate via Internet? Vi piace discutere di politica o di sport su X, la vecchia Twitter? Insomma, siete uno dei 43 milioni d’italiani che ogni giorno accende lo smartphone, o il computer, e si mette a correre online credendo di coltivare «normali» relazioni sociali? Bene, sappiate che siete in errore. 

No, non perché l’interazione informatica è cosa notoriamente diversa da quella tradizionale. Il problema è ben diverso, ed è infinitamente più grave perché riguarda l’effettiva possibilità d’interagire online con un essere umano, che sul Web è sempre più scarsa. Forse vi parrà difficile da credere, ma mentre siamo lì, appesi alla Rete, oggi abbiamo 51 probabilità su cento che dall’altra parte dello schermo non ci sia una persona vera, bensì un falso profilo creato dall’Intelligenza artificiale: un «Bot», in sigla, cioè un robot per dirla alla vecchia maniera. Ovverosia un programma software automatizzato, creato per eseguire compiti ripetitivi.

Il sorpasso delle entità artificiali su quelle umane, su Internet, è avvenuto a livello globale nel 2024. È stato un passaggio silenzioso, nessuno se n’è accorto. Ma lo ha appena certificato con autorevolezza Imperva, colosso californiano della cybersecurity e leader mondiale nella protezione informatica di aziende, banche e organizzazioni governative. Nel suo Bad Bot Report 2025 Imperva scrive che «nel 2024 il traffico automatizzato, cioè l’insieme dei messaggi postati da ogni tipo di entità informatica, ha superato per la prima volta l’attività umana e vale il 51 per cento di tutto il traffico sul Web». 

Immaginate il traffico su Internet come una strada affollata da automobili. Fino a pochi anni fa, la totalità delle auto era guidata da persone reali. Che in Rete facevano cose normali, come leggere notizie, acquistare prodotti o tenersi in contatto con gli amici. A un certo punto, invece, sulla strada hanno iniziato a circolare vetture che al volante avevano un Bot. E dall’anno scorso, improvvisamente, noi umani al volante siamo diventati minoranza assoluta. 

Il colpevole di questa invasione aliena è l’Intelligenza artificiale.È grazie all’Ia, infatti, se creare questi Bot è diventato facilissimo anche per chi non sia un mago del computer. Il guaio è che la stragrande maggioranza delle auto guidate da Bot non sono fatte per una circolazione corretta e ordinata, ma sono progettate apposta per causare incidenti. Sono costruite per scontrarsi con le auto umane. 

È quanto sottolinea nel suo rapporto Imperva, quando scrive che in Rete i Bot appartenenti alla categoria dei «buoni», per esempio quelli che ci aiutano nelle ricerche, sono appena 14 su 100. Gli altri 37 sono «cattivi», cioè creati per imbrogliarci e ingannarci. Riescono a rubare dati online, possono prendere il controllo dei nostri account, manipolare prezzi e diffondere false notizie, le velenose «fake news». Quindi combinano guai grossi anche in politica, i Bot cattivi, perché è quasi impossibile riconoscerli, ma sono molto aggressivi e soprattutto convincenti. Non è un gioco. Prima di un voto, intere opinioni pubbliche possono essere scosse, sospinte, condizionate, teleguidate… Si sospetta sia già accaduto almeno una volta, nel referendum inglese del 2016 sulla Brexit. E oggi le tecnologie sono infinitamente più raffinate di dieci anni fa, quando l’invasione dei Bot malevoli era appena iniziata.

In realtà, la grande marcia dei Bot cattivi è partita nel 2019. Secondo Imperva, in un’Internet dove il traffico umano valeva ancora due terzi del totale, sei anni fa I «bad Bot» erano appena 13 su cento. La crescita è stata progressiva. Nel 2022 erano saliti a 17, e a 18 nel 2023, ma l’anno scorso di colpo sono più che raddoppiati, e hanno travolto i Bot buoni. A questo ritmo di crescita, se nulla accadrà per contrastare la tendenza, è più che plausibile che nel 2030 i Bot maligni arrivino a generare da soli da sei a sette decimi del traffico su Internet: allora saremo tutti sottoposti a una maggioranza assoluta d’interazioni ingannevoli, negative, e vivremo immersi nell’incubo di una diffusione esponenziale della disinformazione e delle frodi online. Saremo le vittime predestinate dell’Ia. 

Scenari da film apocalittico? C’è chi la vede anche più nera. Yuval Noah Harari è uno storico e filosofo israeliano di 49 anni, da dieci divenuto famoso in tutto il mondo per la profondità dei suoi allarmi sullo sviluppo dell’Ia. I suoi libri sono stati tradotti in 65 lingue e hanno venduto oltre 40 milioni di copie: Nexus, l’ultimo saggio del 2024, predice che l’Intelligenza artificiale metterà «fine alla storia dell’uomo», arrivando al suo annientamento o, più insidiosamente, alla sua «sottomissione». Già in una visionaria intervista all’Economist dell’estate 2023, Harari aveva notato che l’Ia, in quanto «prima invenzione umana in grado di concepire idee autonome», avrebbe potuto «creare linguaggi, storie e persino nuove religioni», e aggiunse che nel giro di pochi anni avrebbe potuto generare «bolle di realtà su misura per ogni individuo, rendendo impossibile distinguere il vero dal falso». La sua conclusione: «Se non la regolamentiamo, in pochi anni l’Ia potrà non solo manipolare il discorso pubblico, ma la nostra stessa realtà». 

Si obietterà: elucubrazioni di un intellettuale. Eppure anche un genio dell’informatica come Sam Altman lancia allarmi, da tempo, e questo malgrado sia l’uomo che nel 2015 ha fondato OpenAI e che nel 2022 ha lanciato ChatGpt, la prima Ia veramente interattiva. Nel 2023 Altman disse che l’Ia crea sì opportunità sconvolgenti, ma potrebbe anche «causare danni molti significativi al mondo», trasformandolo in modo «infinitamente più drastico di quanto non abbiano fatto altre invenzioni epocali, come la stampa o Internet». In un’audizione al Senato degli Stati Uniti tenuta un mese fa, l’8 maggio, Altman ha lanciato un allarme nuovo e diverso. Un allarme «geo-politico»: «Le capacità che permetteranno all’Ia di accelerare il progresso umano», ha confermato, «creeranno anche nuove aree di rischio». Poi ha suggerito al Congresso l’urgenza di «passi concreti per garantire che una versione americana dell’Ia, costruita su valori democratici come la libertà e la trasparenza, prevalga su una versione autoritaria». Altman non ha fatto i nomi delle grandi dittature globali – Cina, Russia, Iran… – ma nell’aula del Senato tutti hanno capito dove andasse a parare. E la tesi è esattamente quella sostenuta da Harari in Nexus, là dove il filosofo scrive che «i governi e i regimi che riusciranno a centralizzare e controllare la loro Ia avranno un potere senza precedenti non solo sulle loro popolazioni, ma anche su quelle di altri Stati e sugli eventi globali, minacciando la libertà del mondo».

Un futuro inquietante. Ma non c’è bisogno di un’autocrazia straniera per finire schiavi dell’Ia. Già oggi c’è chi le si affida in modo totale, forse sconsiderato. Intelligent.com, un grosso sito americano che da anni produce analisi su scuola e università, ha interrogato 3 mila «nativi digitali» (i nati dopo il 1990, quelli che hanno sempre convissuto con Internet), scoprendo che sette su dieci utilizzano l’Ia per cercare lavoro. Più triste, se volete, è che il 53 per cento di loro chieda consigli di carriera all’Ia, «fidandosi molto più di quanto si fiderebbe di un consulente umano, di un insegnante o di un genitore». Ecco, se un Bot è meglio di papà e mammà, allora l’Ia ha davvero già vinto. 

Autore
Panorama

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