Svolte sulla salute: il Foglio ha ragione. Ci scrive Schillaci
- Postato il 8 novembre 2025
- Di Il Foglio
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Svolte sulla salute: il Foglio ha ragione. Ci scrive Schillaci
Caro Direttore, la ringrazio per aver ricordato, con il suo articolo sui 23.500 centenari italiani, che le buone notizie esistono anche quando il catastrofismo universale vorrebbe nasconderle. Quel dato dell’Istat è un colpo al pessimismo di professione. Ed è anche un esempio perfetto di quello che manca nel dibattito sulla sanità italiana. La parola è: serietà. I centenari raddoppiati dal 2009 – un incremento del 130 per cento in 16 anni – ci dicono che il nostro Servizio sanitario nazionale, nonostante tutto, funziona. Non perfettamente, non uniformemente, ma funziona. Garantisce aspettative di vita tra le più alte d’Europa. E l’onestà intellettuale ci imporrebbe di partire da questo dato di realtà, non per autoassolverci o per negare i problemi, ma per capire cosa abbiamo costruito e come preservarlo mentre cerchiamo di migliorarlo. Lei cita tre punti – spendere meglio, scegliere per competenza, combattere la demagogia territoriale – che sono altrettanti esempi di ciò che intendo per rigore e responsabilità. Serietà è affrontare i problemi ammettendo le responsabilità. Tutte. Perché nessuno può scagliare la prima pietra sul Servizio sanitario nazionale ingolfato.
E’ stato frammentato in 20 sistemi regionali senza una vera regia nazionale, definanziato costantemente per oltre un decennio, lasciato andare a macchia di leopardo. Il risultato? Un’eccellenza qui, un disastro là. E pazienza se hai avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata. Ma questo non possiamo più accettarlo: un cittadino non può pagare con la salute il fatto di essere nato in Puglia piuttosto che in Veneto. Serietà è riconoscere che le buone pratiche non hanno colore politico. Che l’appropriatezza organizzativa funziona a prescindere da chi governa. Il patriottismo – parola forte e necessaria – ci chiede di moltiplicare gli sforzi per portare l’eccellenza ovunque. Quando un napoletano sale su un treno per farsi operare a Brescia o a Padova non è mobilità sanitaria. E’ la sconfitta di un’intera nazione. E’ l’ammissione che lo stato ha rinunciato a garantire l’uguaglianza dei diritti. Lei dice: scegliere per competenza, non per appartenenza. Condivido pienamente. Ma aggiungo: truccare i dati delle prestazioni per mantenere parametri e premialità, manipolare le statistiche per prendere il bonus di fine anno mentre i cittadini aspettano mesi per una visita oncologica, non è solo indegno. E’ disumano. E ancora oggi dobbiamo ricordare a troppi amministratori che questo non è accettabile. Serietà è dare un nome alle cose e chiamarle per quello che sono. Su questo, il governo Meloni ha avuto da subito un approccio chiaro e rigoroso.
Da oltre un anno c’è il decreto legge sui tempi d’attesa. E chi lo applica davvero sta invertendo la tendenza: oltre mille ospedali hanno incrementato le performance del 20 per cento. Il testo dice con chiarezza chi deve fare che cosa, stabilisce regole precise. Perché se a un cittadino si dice che le liste sono chiuse, ma se paga magicamente ci sono medici, macchinari e sale operatorie pubbliche a disposizione, dobbiamo chiamare questo fenomeno con il suo nome: illegale, disonesto e indegno. E’ disorganizzazione colpevole a spese dei diritti dei più deboli. Ma c’è un livello di responsabilità che chiamo in causa direttamente, come medico prima ancora che come ministro. Quello di chi ha prestato giuramento di prendersi cura delle persone. Dire di no a chi è in difficoltà per fare spazio a chi può pagare non è solo scorretto dal punto di vista deontologico: tradisce la ragione stessa per cui si sceglie questa professione. Ho fatto il medico per trent’anni, ho lavorato negli ospedali, so bene cosa significa. Quando indossi quel camice la prima domanda non può essere “quanto hai in tasca?” ma “di cosa hai bisogno?”. Il diritto alla cura non può dipendere dalla capacità di pagamento. Se accettiamo questo principio, se lo lasciamo passare come normale, abbiamo già perso tutto. Abbiamo tradito non solo il patto con i cittadini, ma anche con noi stessi.
Ha ragione quando scrive che buttiamo via 50 miliardi in esami inutili e farmaci superflui. Cinquanta miliardi. Ammettere questo è scomodo perché tocca gli interessi consolidati, gli equilibri di potere, chi lucra sulla malattia. E’ più facile dire che mancano sempre e solo i soldi. Certo che servono più risorse. Ma se poi vengono spese male, se vengono lasciate nei cassetti o dirottate a coprire buchi di bilancio – e i dati della Corte dei conti sui fondi inutilizzati dalle regioni sono lì a dimostrarlo – a che serve? Lei osserva che il 91 per cento dei centenari vive in famiglia, non in istituti. E’ un’osservazione cruciale. Ci dice dove sta andando il futuro della cura. Ecco la vera rivoluzione che ci aspetta e alla quale stiamo lavorando: sanità territoriale, medicina di prossimità, assistenza domiciliare integrata. Non gli ospedali-cattedrali in ogni angolo della città per accontentare gli elettori e tagliare i nastri. Ma presidi diffusi sul territorio, tecnologie per la telemedicina, équipe che vanno a casa delle persone. Soprattutto degli anziani, dei fragili, di chi non può muoversi. Serietà è anche avere il coraggio di chiudere i reparti che non hanno più senso per aprire case di comunità dove davvero servono e di investire in tecnologia per l’assistenza domiciliare. Una riflessione scomoda sul rapporto tra sanità e consenso. Perché è facile promettere, difficile mantenere.
Facile individuare i colpevoli, difficile assumersi le responsabilità. Facile annunciare riforme epocali, difficile realizzarle nel concreto. Il nostro approccio è diverso: concentrarsi sui numeri verificabili, sui dati oggettivi, sui controlli mirati. Non sulle polemiche. Non sui titoli. Cerchiamo soluzioni concrete che durino nel tempo e, per definizione, ci vuole tempo. Il punto è che la serietà non si finanzia. Non c’è legge di Bilancio che possa stanziarla, non si compra con i miliardi del Pnrr. E’ un prerequisito culturale, un habitus mentale, una scelta etica prima ancora che politica. E’ decidere di guardare i problemi per quello che sono, non per come vorremmo che fossero. Lei scrive, e condivido, che il Servizio sanitario nazionale è più forte quando lo descriviamo non come un problema da demolire ma come parte della solidità complessiva di un paese. I 23.500 centenari italiani ce lo dimostrano ogni giorno. Ma per rafforzarlo ancora di più, per farlo durare altri cinquant’anni, per lasciarlo alle generazioni future almeno come lo abbiamo ricevuto noi, serve quello che nessuna manovra finanziaria potrà mai stanziare
Serve rigore. Nella diagnosi dei problemi, nella scelta delle soluzioni, nell’attuazione paziente delle riforme. Serve onestà intellettuale nel riconoscere cosa funziona e cosa no, indipendentemente da chi lo ha fatto. Serve responsabilità nel prendere decisioni difficili e impopolari quando necessario. Senza tutto questo, possiamo stanziare tutti i miliardi che vogliamo, possiamo scrivere le riforme più belle del mondo sulla carta. Ma non cambierà nulla. Le buone notizie, come dice lei, non arrivano mai da sole. Ma per farle arrivare più spesso, per moltiplicarle, dobbiamo meritarcele. Con la serietà. Con il rigore. Con la responsabilità. Con stima.
Orazio Schillaci, ministro della Salute
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