Talenti Calabresi, Erika Pedace, cacciatrice di molecole per prevedere il diabete
- Postato il 21 ottobre 2025
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Il Quotidiano del Sud
Talenti Calabresi, Erika Pedace, cacciatrice di molecole per prevedere il diabete

Alla scoperta di diagnosi precoci e opportunità di cura, Erika Pedace, una dei talenti calabresi nel mondo della ricerca è diventata una vera e propria cacciatrice di molecole che possono prevedere il diabete di tipo uno
CROTONE – Nel laboratorio di Diabetologia dell’Università di Siena lavora la giovane ricercatrice Erika Pedace, 27 anni, originaria della Calabria, e precisamente da Papanice, quartiere – paese di Crotone, Qui si occupa, con passione, allo studio di soggetti prediabetici, ovvero persone predisposte allo sviluppo del diabete di tipo 1 ma che ancora non hanno manifestato la malattia, contribuendo a scrivere il futuro della prevenzione e della cura del diabete di questa patologia, molto diffusa.
A raccontare il suo lavoro è la stessa giovane ricercatrice calabrese: «Il nostro obiettivo – spiega – è individuare delle molecole sentinella, capaci di rivelare con la massima precisione possibile se una persona svilupperà o meno, in un arco temporale di 15 mesi, il diabete di tipo 1».
Non si tratta ancora – precisa la scienziata – di vera prevenzione. «Attualmente il mio compito si limita all’identificazione del rischio, perché purtroppo oggi non esistono farmaci in commercio in grado di arrestare o invertire l’insorgenza della malattia negli individui a rischio. Tuttavia, sono in corso trial clinici promettenti: alcune terapie sperimentali hanno dimostrato che, somministrando il farmaco allo stadio prediabetico avanzato, quando la malattia è solo alle soglie ma non ha ancora esordito completamente, è possibile ritardarne l’insorgenza. Non si parla ancora di prevenzione assoluta – sottolinea – ma almeno di un’importante fase di rallentamento della patologia».
La frontiera verso cui avanza la ricerca è dunque duplice: da una parte anticipare la diagnosi, dall’altra offrire una finestra temporale utile a intervenire in modo più mirato, differente rispetto al passato.
Alla domanda su come sia nata questa vocazione per la ricerca, la risposta rivela la profondità di una scelta esistenziale più che un episodio specifico. «Non ricordo un evento in particolare che mi abbia spinta su questa strada. Sin dai tempi in cui ho cominciato a chiedermi “cosa voler fare da grande”, il mestiere della ricercatrice mi affascinava. Mi piaceva, e mi piace ancora, l’idea di aiutare le persone. Magari scoprendo qualcosa che migliora la qualità della vita o cambia il destino di molti».
La spinta all’impegno è diventata più concreta una volta arrivata a Siena e conosciuto il Professor Dotta, luminare della diabetologia, leader di caratura internazionale con numerosi progetti all’attivo e una rete di collaborazioni che va ben oltre i confini italiani.
«Mi sono sentita subito attratta dall’idea di lavorare in un laboratorio tanto dinamico e aperto, dove fosse davvero possibile fare ricerca d’avanguardia».
Un luogo che, ammette la ricercatrice, nel panorama italiano un po’ stanco e talvolta bloccato della ricerca scientifica, rappresenta una vera eccezione. «Il nostro laboratorio è davvero un’isola felice. Questo mi ha aiutata a restare motivata, crescere professionalmente e trasformare una propensione in una solida attività di ricerca». C’è anche un pezzo di storia familiare in questa passione. «Abbiamo casi di diabete di tipo 1 in famiglia, quindi la causa mi è sempre sembrata ancora più vicina e sentita».
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Nonostante la giovane età, la carriera della ricercatrice si è già arricchita di riconoscimenti prestigiosi. «Ho ricevuto due premi importanti e sono stata invitata a numerosi congressi internazionali. Al momento sembra che il mio lavoro stia andando nella giusta direzione: il riscontro della comunità scientifica e dei colleghi mi fa ben sperare».
Nello specifico, ha ottenuto il Premio miglior abstract alla sesta edizione de Le giornate endocrinometaboliche dalla terra di Alcmeone e Pitagora. È vincitrice di una “travel fellowship” sancita dall’Efsd (che mi ha permesso di andare a svolgere un periodo di ricerca all’estero). Però, ammette che il successo è sempre corale: «Non modo mio soltanto, ma tutta la nostra equipe sta diventando un punto di riferimento sia a livello nazionale che oltre i confini italiani. La collaborazione è un valore centrale nella ricerca scientifica contemporanea».
La domanda su quali siano i lavori in corso trova subito risposta. «Oltre all’identificazione di molecole chiave, adesso ci stiamo concentrando sull’origine di queste molecole. Da quali cellule o tessuti derivano? Capirlo, infatti, potrebbe aprire nuove strade. Potremmo pensare di bloccare determinate molecole, valutando se ciò consente di prevenire davvero la malattia».
Un’ipotesi che tiene aperta la porta non solo alla diagnosi precoce, ma anche a una eventuale terapia preventiva, almeno per alcuni casi. «Il sogno di qualsiasi ricercatore è curare una malattia prima ancora che si manifesti – ammette –. Ma occorre realismo: il processo scientifico è spesso più lento di quanto si vorrebbe. Occorrono tanti studi, verifiche e passaggi sperimentali».
Alla domanda sull’eventualità di un futuro rientro in Calabria, dove affondano le radici familiari, la risposta è sincera: «Oggi vedo complicato il ritorno. Non per mancanza di affetto verso casa, ma per motivi oggettivi: servono infrastrutture, fondi, una massa critica di progetti e persone. Non conosco a fondo le condizioni e le opportunità, ma penso che se dovessi continuare a fare ricerca di alto livello, l’unica opzione sarebbe l’Università di Catanzaro. Al momento, però, non è nei miei piani».
Altro aspetto rimarcato è che «il grande sacrificio della mia vita è stato lasciare casa. Una decisione presa a 19 anni e che, con i miei 27 di oggi, pesa ancora. Ma chi sceglie questo mestiere sa che la mobilità e la distanza sono parte del percorso».
Il cammino per diventare scienziati passa inevitabilmente dallo studio e dall’impegno, come ribadisce la ricercatrice: «Se vuoi essere competitivo nella ricerca devi lavorare tantissimo, sempre. E la dedizione inizia molto prima. Il dottorato di ricerca – la più alta forma di istruzione – in Italia è spesso sottovalutato. Ma è il vero banco di prova per chi vuole veramente restare nel mondo accademico e dare un contributo».
La routine dello studio, della costante apertura verso il “non sapere”, degli esami, degli esperimenti che si rincorrono giorno dopo giorno si traduce in risultati che, quando arrivano, ripagano la fatica. «Non puoi mai dare nulla per scontato, devi essere sempre aggiornato e curioso».
L’obiettivo finale della ricerca resta complesso e lontano, ma le tappe intermedie sono già motivo di ottimismo: «In questo momento, il mio focus è capire l’origine delle molecole individuate: lo stiamo facendo con risultati molto soddisfacenti. È necessario procedere per step: non si può promettere oggi la cura definitiva del diabete di tipo 1, ma posso dire che i risultati in corso sono buoni e danno speranza».Il percorso, dunque, continua: tra Siena, future scoperte, ritorni (forse) a casa, sacrifici e premi, la ricerca resta un’avventura fatta di curiosità, passione e piccoli grandi passi avanti.
Il Quotidiano del Sud.
Talenti Calabresi, Erika Pedace, cacciatrice di molecole per prevedere il diabete