Tassa minima, “i leader del G7 si arrendono a minacce poco credibili e mettono le multinazionali prima dei loro cittadini”

  • Postato il 1 luglio 2025
  • Economia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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​”Non è solo una discussione tecnica sulle tasse. È una questione geopolitica. Che tipo di multilateralismo vogliamo? E come giustifichi con il tuo elettorato la scelta di trattare le multinazionali in maniera più favorevole rispetto ai tuoi cittadini?”. Quentin Parrinello è il direttore delle politiche dell’Osservatorio fiscale europeo, l’organismo fondato e guidato dall’economista Gabriel Zucman. Risponde al Fatto dalla conferenza internazionale dell’Onu sul finanziamento allo sviluppo, in corso a Siviglia. Proprio da lì, domenica, il premier spagnolo Pedro Sánchez ha criticato (“non è una buona notizia”) l’imbarazzante resa dei leader del G7, che hanno promesso a Donald Trump di esentare le multinazionali Usa dalla tassa minima globale del 15% concordata da oltre 140 Paesi nel 2021 e recepita dalla Ue nel 2024. E la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha detto che quell’accordo va attuato.

Quella tassa ha richiesto anni di negoziati ed era già un compromesso al ribasso. Ora viene smantellata con poche righe di comunicato da un G7 dominato da Trump.
È una pessima notizia. La riforma aveva molti limiti e scappatoie, ma rappresentava un passo avanti concreto. Per la prima volta si era trovato un accordo internazionale su un livello minimo di tassazione per le multinazionali, indipendentemente da dove operano. E c’era un meccanismo pensato per garantirne l’applicazione anche nel caso in cui alcuni Paesi non aderissero. Proprio come successo con gli Usa, che non l’hanno mai ratificato. Grazie alla Undertaxed profits rule, gli altri Stati avrebbero potuto tassare gli utili non tassati sufficientemente altrove. In questo modo si evitava che le multinazionali sfuggissero all’imposta semplicemente spostando profitti nei Paesi meno cooperativi. Il G7 sta abbandonando proprio questo principio fondamentale di cooperazione.

Perché i leader hanno ceduto in questa maniera “patetica e scandalosa”, come ha scritto Zucman, rinnegando senza alcun dibattito pubblico il tentativo di contrastare l’elusione?
Temevano ritorsioni da parte degli Stati Uniti, che avevano minacciato una sovrattassa sugli investimenti stranieri. Ma la verità è che nessuno voleva davvero far passare quella proposta (inserita nel Big beautiful bill in discussione al Congresso, ndr), che avrebbe danneggiato anche l’economia Usa. Non a caso dopo l’annuncio del G7 è stata subito ritirata. Ma il punto è che Washington ora lancia minacce ogni settimana. Se ti arrendi ogni volta, rinunci alla tua indipendenza e autonomia.

L’esenzione per le multinazionali Usa è stata annunciata dal G7, ma la decisione finale spetta all’Ocse. C’è possibilità che l’accordo sopravviva, almeno in parte?
Ora tocca all’Inclusive Framework dell’Ocse (un tavolo multilaterale che riunisce oltre 140 Paesi, nato nel 2016 con l’obiettivo di coordinare le riforme della fiscalità internazionale, ndr): è il momento della verità. Non possiamo accettare che un solo Paese con il suo ostruzionismo distrugga anni di lavoro sulla lotta all’evasione e all’elusione. E di sicuro nel lungo periodo l’esenzione dei gruppi statunitensi, che in questo modo continueranno a pagare meno delle piccole imprese, non è una soluzione sostenibile. Come lo giustifichi con il tuo elettorato?

Appunto. Gli elettori come prenderanno la rinuncia a una fonte di gettito che avrebbe anche garantito più equità fiscale, dopo che i leader si sono impegnati a gonfiare le spese per la difesa sempre su richiesta di Trump?
È una contraddizione clamorosa. La tassa minima avrebbe garantito entrate preziose per gli Stati che hanno bisogno di risorse per il sociale e il clima. E se non tassi le multinazionali, crei un buco nei conti pubblici: a quel punto o tagli ulteriormente la spesa o aumenti le tasse per gli altri, per i cittadini. È questo il rischio.

Se l’esenzione sarà confermata, potrebbe spingere qualche grande gruppo Ue a trasferire la sede (o spostare utili) negli Stati Uniti per avere un trattamento fiscale più favorevole?
Sì, il rischio c’è. Ma, ripeto, questa non è la parola fine. Dipende tutto da come vediamo il multilateralismo. La mossa del G7 dimostra che dobbiamo reiventarlo su basi molto più ampie. Qui a Siviglia a parlare di finanziamento dello sviluppo ci sono delegazioni di oltre 190 Paesi.

A questo punto i negoziati in corso all’Onu per arrivare a una Convenzione quadro sulla cooperazione fiscale internazionale diventano una strada alternativa promettente? O saranno solo simbolici?
I Paesi sviluppati hanno sostenuto che discutere una riforma del sistema fiscale a livello dell’Onu avrebbe solo aumentato la frammentazione. Ma oggi è evidente che gli interessi delle multinazionali vengono sistematicamente messi davanti a tutto il resto. Per questo credo ci sia ora maggiore spazio per quel processo delle Nazioni Unite. La posizione degli Stati Uniti spinge la stessa Unione Europea (che si è astenuta sui terms of reference della convenzione, ndr) in quella direzione.

In questo quadro è realistico che la proposta di una minimum tax globale sui miliardari, discussa lo scorso anno al G20 ma senza raggiungere un consenso, possa fare progressi?
La pressione dell’opinione pubblica c’è, ed è costante. Il vero nodo è: come arriviamo a un accordo? Possiamo costruire un’intesa tra molti Paesi, ma serve coraggio e leadership politica per fare dei passi concreti. In questo momento il clima è cupo, ma per esempio proprio qui a Siviglia la Spagna ha lanciato insieme al Brasile una nuova coalizione di Paesi che collaboreranno per garantire che i super-ricchi paghino le tasse. È solo l’inizio, ma contiamo sull’adesione di altri Stati per raggiungere una massa critica. Anche negli Usa c’è molto dibattito su questo, non si può più evitare l’argomento.

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