Terre rare, la corsa ai fondali oceanici può sfidare il dominio della Cina
- Postato il 12 maggio 2025
- Di Panorama
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La battaglia per le terre rare è già persa per l’Occidente? A quanto pare, no. Certo, la Cina attualmente domina la catena globale di approvvigionamento dei minerali indispensabili per il controllo delle industrie strategiche del futuro: dal digitale alla difesa fino alla transizione energetica. Elementi come nichel, cobalto, litio, rame e terre rare – che alimentano batterie, motori elettrici e turbine, ovvero le tecnologie chiave per la decarbonizzazione – sono appannaggio quasi esclusivo del gigante asiatico. Ed è vero che Pechino ha un vantaggio strategico perché estrae molte di queste risorse all’interno del proprio territorio. Eppure qualcosa fa ben sperare. L’impennata della domanda generale delle terre rare, infatti, ha spostato l’attenzione sui fondali oceanici, a oggi poco o per niente sfruttati.
Tra i quattro e i cinquemila metri sotto il livello del mare si trovano concrezioni minerali ricche di nichel, rame, manganese e cobalto. E questi noduli polimetallici si concentrano per lo più in acque internazionali, dunque regolamentate dall’Autorità internazionale per i Fondali marini (Isa), un organismo Onu. Finora, circa 20 Paesi hanno sponsorizzato progetti di esplorazione in queste acque profonde. E la Cina è in ritardo.
L’avvio delle attività estrattive – inizialmente prevista già nel 2025 – è ancora messa in dubbio per via delle perplessità della comunità scientifica sui possibili impatti negativi sull’ambiente. Leticia Carvalho, l’oceanografa e diplomatica brasiliana eletta segretario generale dell’Autorità al posto dell’avvocato britannico Michael Lodge, è favorevole allo sfruttamento dei fondali marini, ma ancora oggi mantiene delle riserve. Eppure, la sensazione è che sia solo questione di tempo. L’espansione di questo genere di estrazione intanto ha aperto uno spiraglio geopolitico: diversificare le catene di approvvigionamento al di fuori della Cina è possibile. Per affrancarsi da Pechino, però, occorre tempo: trovare alternative nella fornitura per l’industria mineraria e la lavorazione del materiale estratto richiede investimenti e un’impegnativa strategia a lungo termine. Senza contare la necessità di costruire impianti di lavorazione in altri Paesi, cosa che richiederà incentivi, norme meno stringenti e misure contro pratiche commerciali sleali da parte degli Stati occidentali.
Intanto, l’alternativa del fondo degli oceani eccita i mercati e stimola la concorrenza. Fino a oggi il dominio cinese è stato sostenuto da una strategia nazionale che puntava ad assicurarsi le risorse, potenziare la capacità industriale, abbattere i costi e impedire lo sviluppo di concorrenti. Tutto con il supporto diretto dello Stato, tra imprese pubbliche e finanziamenti mirati. Dunque, occorrerà rispondere con la stessa moneta attraverso interventi mirati come sussidi, incentivi o vendite garantite, accelerando la riconversione anziché la costruzione da zero di nuovi impianti.
È in tale prospettiva che ha preso forma la Minerals Security Partnership, un’alleanza guidata dagli Stati Uniti con partner internazionali, con l’obiettivo di provvedere a forniture sempre meno dipendenti dalla leadership cinese. Anche l’ambiente entra a pieno titolo nel confronto sulle strategie future: se da un lato l’impatto ecologico dell’estrazione mineraria dai fondali marini è ancora sotto osservazione, dall’altro sono già ben noti i danni provocati dalle attività estrattive a terra condotte senza scrupoli dalla Cina e particolarmente evidenti in Indonesia, Nuova Caledonia e nella Repubblica Democratica del Congo. A pesare non è solo la devastazione degli ecosistemi in questi luoghi, ma anche e soprattutto le barbare condizioni di lavoro e le diffuse violazioni dei diritti umani. In questo contesto, le operazioni sottomarine si presentano come un’alternativa potenzialmente meno problematica. Si tratta infatti di un’industria ad alta intensità tecnologica e con un impiego minimo di manodopera super specializzata; cosa che riduce il rischio di sfruttamento umano e, almeno in teoria, dovrebbe consentire un maggior controllo ambientale.
L’estrazione mineraria dagli abissi potrebbe quindi giocare un doppio ruolo: fornire le risorse necessarie per la transizione energetica in Occidente e, allo stesso tempo, ridisegnare le dinamiche geopolitiche della prossima rivoluzione industriale. Tra il Messico e le Hawaii si estende già oggi la Clarion-Clipperton Zone (Ccz), un’area remota dell’Oceano Pacifico centrale che sta rapidamente diventando il fulcro della corsa sperimentale ai metalli critici. Ricca di noduli polimetallici contenenti manganese, nichel, rame e cobalto, la Ccz ha attirato l’attenzione internazionale: finora l’International Seabed Authority ha concesso 19 licenze di esplorazione a Paesi come Giappone, Corea del Sud, Germania e Francia. Anche la Norvegia si muove. E ovviamente anche la Cina, ma senza poter vantare alcun vantaggio o posizione dominante.
A dire il vero, stavolta l’Europa è un passo avanti: a gennaio 2024, per esempio, è stata Oslo ad aver dato il via libera all’esplorazione di 284 mila chilometri quadrati sui fondali del Mare di Norvegia e del Mare di Groenlandia. L’interesse è rivolto ai solfuri massivi sottomarini e alle croste ferromanganesifere ricche di cobalto: formazioni che si trovano all’interno delle Zone economiche esclusive (Eez) e quindi non soggette al controllo dello sfruttamento delle risorse minerarie, neanche da parte dell’Isa. Questi fondali racchiudono un enorme potenziale economico non solo per i citati cobalto, nichel, manganese, ma anche per platino titanio, cerio, tellurio, tallio e zirconio (tuttavia, l’estrazione è considerata tecnicamente molto più difficile ed invasiva rispetto a quella dei noduli polimetallici). Nel Pacifico occidentale c’è un altro competitor della Cina, ossia il Giappone, ad aver individuato un potenziale giacimento di circa 230 milioni di tonnellate di minerali rari nei pressi dell’isola di Minami-Torishima. Secondo le stime, potrebbe coprire il fabbisogno nazionale di cobalto per i prossimi 75 anni, rappresentando una risorsa strategica per la produzione di batterie destinate ai veicoli elettrici che consentirebbe a Tokyo di evitare del tutto la catena di approvvigionamento cinese.
Anche le Isole Cook stanno puntando sui fondali: il piccolo Stato del Pacifico ha concesso tre licenze esplorative nella propria zona economica esclusiva. Nel frattempo, l’India si è assicurata diritti di esplorazione nell’Oceano Indiano, focalizzandosi su solfuri polimetallici nelle dorsali oceaniche. Infine, gli Stati Uniti stanno sondando i fondali di Pacifico e Artico. Ed è proprio in queste profondità che potrebbe nascere una nuova «corsa all’oro».