The Death of Dracula e Orfeo, tra realtà e sogno il cinema in purezza a I Mille Occhi di Trieste

  • Postato il 11 settembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Tecnica mista” è scritto sotto diversi dipinti appesi nei musei. The Death of Dracula – co-regia di ben sei autori rumeno/ungheresi – e Orfeo di Virgilio Villoresi, in visione nelle prossime ore al festival triestino di I Mille Occhi 2025, fanno dell’uso originale e sapiente delle tecniche miste più disparate con cui si crea il cinema, un pregio di rara perfezione. Sulla falsariga di pochissime immagini e disegni pubblicitari di un film austriaco del 1921 andato distrutto e perduto – Death of Dracula di Karoly Lajthay–, il primo film della storia tratto da Bram Stoker sul mefitico conte transilvano, un gruppo di giovani cineasti (Attila Godri, Gyopar Buzas, Flora Kovacs, Szabolcs Sztercey, Orsolya Orban, Boglarka Angela Farkas, Nora Miklos, Zsofia Makkai) ha reinterpretato la visione originale del vampiro di Lajthay.

Graffi, pelucchi, bolle, salti di pellicola, mistura granulosa di bianco e nero d’antan in 16mm, The death of Dracula è una versione ovviamente muta alquanto bizzarra, poetica e visivamente potentissima, sulle gesta in vita del celebre conte. Quando la giovane Mary (Molnar Eniko) viene chiamata al capezzale del padre morente in un manicomio, si ritrova improvvisamente priva di forze tanto da dovere rimanere una notte a riposo nella struttura ospedaliera. È lì che il conte Dracula (Tibor Paiffy) la rapisce e poi, attraversando boschi e foreste, la porta nel suo castello ed in mezzo a fluttuanti ancelle la sposerà. Si tratta di un sogno dell’orrore o della realtà orrorifica all’interno delle mura manicomiali?

The death of Dracula è una delle opere più intriganti e raffinate viste negli ultimi anni in un contesto festivaliero. Alla base di un racconto essenziale e avvincente c’è la cura maniacale nella recitazione, nei trucchi ottici, nel taglio dell’inquadratura (alcuni dettagli mimano magistralmente il senso e le scelte degli anni venti), nelle peculiari dissolvenze incrociate dell’epoca. Un testacoda esteticamente antico-moderno che lascia ipnotizzati, spiazzati, catapultati dentro la pancia del cinema, in un devoto, rispettoso, giocoso rimando ad incubi e pulsioni profonde del sempiterno vampiro stokeriano.

Orfeo di Villoresi, invece, è ambientato in una sorta di fantasioso, pittorico, onirico evo contemporaneo, dove il mito di Orfeo rivive nella folgorante improvvisa passione di Orfeo (Luca Vergoni) un giovane pianista di un locale notturno innamoratosi di Eura (Giulia Maenza) una casuale cliente del night Polipus. Tra prospettive animate e urbane alla De Chirico, spizzichi di found footage familiare, Orfeo rincorrerà Eura, la amerà ritirandosi con lei in una baita di montagna, poi la perderà. Solo in sogno ed oltre una porta chiusa potrà tentare di ritrovarla, sempre che come mito vuole, non si giri nuovamente guardarla prima che lei esca dal regno dell’aldilà. Ispirato a un fumetto del 1969 di Dino Buzzati, Orfeo è un film sulla tragicità dell’amore e sull’impossibile superamento della perdita che proprio nella continua audace tessitura e ricomposizione notturna tra live action e animazione, o nella mescolanza delle due, pulsa di una irripetibile, vagamente spettrale, vivacissima originalità espressiva. I titoli di coda sono su un rullo di carta girato lentamente da una mano. Di Villoresi, si spera, se ne tornerà sicuramente a parlare.

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Il Fatto Quotidiano

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