Ti ricordi… Gilmar, il portiere “caporale” che raccolse le lacrime di Pelè
- Postato il 22 agosto 2025
- Calcio
- Di Il Fatto Quotidiano
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Ventidue di Agosto: due volte due. Un numero importante, quel due, che tornerà spesso nella vita e soprattutto nella carriera di chi, come Gilmar dos Santos Neves o semplicemente Gilmar (nome che nasce dall’unione di quelli della mamma Maria e di papà Gilberto) sulle spalle ha sempre avuto l’uno. Già, uno dei più grandi portieri della storia Gilmar, sicuramente il più forte tra i brasiliani.
Nato nel 1930, meno di un mese dopo che l’Uruguay si era laureata campione del mondo, nella prima competizione della storia, a Santos, nel bairro do Macuco: il giovane Gilmar a differenza dei suoi compagni che si danno battaglia a colpi di dribbling e virtuosismi sceglie di stare in porta. Una scelta coraggiosa in Brasile: comincia tra i Portuarios, la squadra dei lavoratori del porto, e poi approda al Jabaquara, con la famiglia che è un po’ scettica sul suo futuro nel calcio. A 19 anni gli tocca il servizio militare: diventa “Cabo Neves” (caporale Neves) e quel soprannome lo accompagnerà anche all’inizio della sua carriera da calciatore. Carriera che di fatto comincerà nel 1951: il Corinthians vuole il centrocampisti Cicià del Jabaquara, ma la società dice che darà l’assenso solo se “il Timao” avesse preso anche il giovane Gilmar.
Alto e longilineo, da “Cabo Neves” diventa “Girafa”, mentre in porta cerca di imitare Oberdan Cattani, detto “La muraglia”, portiere del Palmeiras di undici anni più giovane e capace di bloccare i palloni con una sola mano e famoso per i suoi tuffi a ponte, i “pontes”. Comincia come terzo portiere, e l’esordio è da incubo: il 25 novembre il Corinthians perde 7 a 3 contro la Portoguesa e viene additato come colpevole di quella disfatta. Una pratica piuttosto comune in Brasile, quella di dare la colpa ai portieri: un anno prima si era consumato il Maracanazo, l’Uruguay era diventato campione del mondo di nuovo in casa verdeoro, per colpa del portiere Barbosa, secondo i più. Dopo quell’esordio non vedrà più il campo, al massimo andrà in panchina, ma da riserva si laureerà campione nel Paulista.
Gilmar non si perde d’animo: resta al Corinthians e aspetta il suo momento. Ritrova la titolarità in un’amichevole nell’aprile del 1952, poi pian piano dimostra con la sua agilità e il suo carisma che gli permette di guidare i compagni difensori di essere un portiere forte e affidabile. Se ne accorgeranno anche Zezé e Aimorè Moreira, fratelli ct della nazionale brasiliana, che lo faranno esordire con la maglia verdeoro nel 1953. Ormai è titolare in pianta stabile nel club, dove porta a casa anche altri titoli, e pian piano in nazionale diventa il titolare superando Castilho nelle gerarchie: è lui il portiere nella Copa America del 1957 dove il Brasile si classifica secondo, dietro l’irresistibile Argentina degli “angeli dalla faccia sporca” Sivori, Maschio e Angelillo.
C’è nel 1958 in Svezia, quando i numeri della nazionale vengono distribuiti a caso da un rappresentante della Fifa, e a lui tocca il 3. In quella manifestazione Gilmar non subisce gol fino alla semifinale, quando è il francese Fontaine che lo batte, in una partita senza storia però, che il Brasile vincerà 5 a 2, come senza storia sarà pure la finale che alla memoria collettiva consegna quella nazionale, quel portiere e quel ragazzino di nome Pelè, che in una delle fotografie più iconiche dei mondiali piange proprio sulla spalla di Gilmar.
Due, dunque, come i Mondiali vinti da Gilmar che trionferà anche nel 1962, unico portiere a vincere due Coppe del Mondo da titolare, due come i club per cui giocherà: lascerà il Corinthians nel 1961 dopo un litigio col presidente Helou, che lo accusava di pigrizia nei primi anni al club, e passerà al Santos, dove giocherà oltre trecento partite vincendo cinque campionati paulisti, cinque campionati brasiliani, due Libertadores e due intercontinentali.
Se Pelé è stato il volto del sogno brasiliano, Gilmar ne è stato lo sguardo vigile e protettivo, la mano ferma dietro a una generazione irripetibile. E in quell’abbraccio con il giovane O’Rei in lacrime, rimane impressa per sempre la sua grandezza: discreta, silenziosa, ma destinata a non svanire mai.
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