Towanda
- Postato il 22 ottobre 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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“A volte mi domando che cosa usi la gente al posto del cervello. Pensa a quei ragazzi: hanno paura di sedersi a mangiare vicino a un negro, ma divorano le uova che escono dal culo delle galline” possiamo leggere nel romanzo di Fannie Flagg, pseudonimo di Patricia Neal, dal titolo Pomodori verdi fritti alla fermata di un treno. Nel romanzo, come nella pellicola che splendidamente lo traspone in chiave cinematografica, la denuncia dell’ottusità della discriminazione razziale viaggia in parallelo con quella sessuale, i lettori più avveduti sanno bene che la discriminazione pregiudiziale è una forma di ottusa tifoseria, una sorta di patologia che impedisce, a chi ne è afflitto, anche solo la possibilità di vedere l’oggetto del proprio rancore se non come un nemico, spesso senza averlo ancora incontrato davvero. È anche evidente, mi sembra, che esista una profonda differenza tra tifoso e sportivo, del primo abbiamo detto, il secondo, al contrario, gode della bellezza dello sport che segue, è felice dei successi dell’atleta o della squadra che ama ma questo non gli impedisce di apprezzare le qualità degli antagonisti, che non avverte come nemici, così da poterli “incontrare e apprezzare”. Uscendo dal parallelismo e tornando all’incipit, che “il nemico” sia tale poiché ha un diverso colore, o preghi un altro dio, o sia nato di un altro sesso o preferenza sessuale, appartenga a un certo popolo o etnia, insomma, non possa essere omologato alla “discriminante pregiudiziale”, questo è “brutto-cattivo e colpevole”. La presunta “colpa” si estende, nel tempo, a qualsiasi nefandezza immaginabile mentre il giudicante riconosce alla sua parte ogni attenuante se non addirittura il diritto alla santificazione. Lasciamo a margine il tema razziale e raccogliamo quello che meno esplicitamente accompagna il testo al quale ci siamo riferiti: la discriminazione sessuale. Non è certo un caso che Patricia Neal sia dichiaratamente omosessuale e che, nel romanzo, la relazione tra Idgie e Ruth sia addirittura molto più sviluppata che non nel film, ma quello che più conta è che le donne descritte non hanno mai bisogno di un uomo per dare un senso alla propria esistenza, non rifiutano l’altro sesso, semplicemente reclamano il diritto alla propria autonomia, il riconoscimento di sé senza bisogno di una stampella anche se innamorata.
Perché si pensa di gratificare una donna con la frase “è una donna con le palle” mentre suonerebbe dileggiatorio per un uomo essere reputato “con le ovaie”? Evidentemente una serie di stereotipi culturali rendono, almeno per alcuni, paradossale quanto ho appena scritto; per altri, i più disponibili al confronto, un interessante spunto di riflessione, ma l’acuta provocazione libertaria del romanzo la si riconosce ancor di più nell’urlo di guerra che si offre come titolo a queste righe: Towanda. Lasciamo a margine i rimandi geografici del nome e cogliamone il senso che riveste nel messaggio di Patricia Neal. Towanda è il nome del, mi si consenta la capriola allegorica, supereroe nel quale la giovane Idgie si trasforma ogni qual volta avverte l’approssimarsi di una prevaricazione. Questo personaggio, e la sua amica Ruth, sono le protagoniste di un racconto che “un’anziana ricoverata in un ospedale” conduce per l’intero romanzo a favore della più giovane visitatrice, una donna della media borghesia americana, della media convivenza coniugale, della media sopravvivenza galleggiante che consente di riconoscersi a innumerevoli lettori che tanto vorrebbero liberarsi dalla mediocrità per ottenere la vita che sono convinti di meritare. Ebbene, l’anziana signora, come si scoprirà, è di fatto la stessa Idgie Threadgoode che, da giovane, “ammaliatrice di api e iconoclasta libertaria” si trasformava in Towanda. È bene precisare che non tutto il mondo femminile è indicato come “buono e bello” demonizzando quello maschile, basti pensare alla splendida scena del film nella quale due giovani donne scippano il posto al parcheggio del supermercato alla remissiva Kathy Bates che, finalmente, decide di trasformarsi in Towanda. Le due donne che si erano allontanate ridendo e proclamando “Siamo più giovani e più veloci” ritornano esterrefatte sui propri passi, davanti allo sfacelo della propria vettura, più volte tamponata dalla novella Towanda, per sentirsi apostrofare con “Sono più anziana e meglio assicurata”. Scena causticamente ironica ma che tanto rivela circa le possibilità di rivalsa ipotizzate in una “civiltà di mercato”.
La figura della donna, provo a essere ancor più esplicito, va intesa come simbolo di emarginazione, sfruttamento, bassa considerazione, insomma, come rappresentante di tutte le ingiustizie che nella storia dell’umanità hanno accompagnato il definirsi delle strutture sociali. Solo se si coglie il senso meta-sessuale dell’immagine si consegue la possibilità di accedere a una riflessione che non generi solo sterili contrapposizioni ma, anche e soprattutto, sviluppi positivi fondati sulla comprensione. A maggior ragione nel nostro tempo, un inizio di millennio afflitto da innumerevoli focolai di rabbia che si manifestano, inevitabilmente, in violenza, la luce peculiarmente umana dell’intelligenza sembra essere l’unica possibilità per fondare un mondo che “abbiamo avuto in prestito dai nostri figli ai quali sarà bene restituirlo in condizioni almeno di serena vivibilità”. In realtà sembra quasi che l’intento diffuso sia quello di accendere rancori, conflittualità, rabbia cieca, arroganza prevaricante, riprendiamo il primo rigo di apertura e attualizziamolo: “A volte mi domando che cosa usi la gente al posto del cervello. Pensa a quei ragazzi: parlano di amore giustizia e pace e si accingono a picchiare, distruggere, pubblicare proclami di violenza sui social”, fra le mille cause di tanta rabbia e di tanta conseguente aggressività credo di poterne analizzare almeno una in questa sede. Ogni persona che si reputa depositaria di una verità incontrovertibile tende al fanatismo e alla violenza, verbale o fisica che sia, nei confronti dell’interlocutore che, se non la pensa allo stesso modo, inevitabilmente è in errore. Insomma, non è la prima volta che sentiamo affermazioni del tipo “esiste un solo vero dio, l’altro è necessariamente il diavolo”, fanatismi che hanno segnato la storia di atrocità infinite e che, adeguatamente imbellettati tra i video della rete, continuano ad aggirarsi per le strade del mondo. Questione immensa che riporto a una delle radici, a mio avviso, più importanti: l’assenza propedeutica del dubbio.
Credo sia importante distinguere due prospettive diverse, la prima offerta dall’opinione e l’altra dal giudizio. Intanto sgomberiamo il campo dalla sciocca pretesa di definire opinione un giudizio al quale si premette “secondo me”, in quel caso si tratta solo di una “vaselina lessicale” che finisce per voler ingannare l’interlocutore e giustificare se stessi sollevandoci dall’arroganza del giudizio. Per ben comprendere il concetto chiariamo che l’opinione è diveniente, si evolve al modificarsi del soggetto che la pensa trasformandola col trasformarsi personale, non pretende di possedere certezze assiomatiche extra individuali; il giudizio, da cui il ruolo di giudice, arbitro, censore, santa inquisizione, linciaggio (modernamente ancor più anonimo e collettivo grazie ai social), si fonda su principi estranei al singolo ed espressione della cultura dominante. Mi sembra evidente che, se due soggetti si confrontano partendo da opinioni differenti, sarà possibile che le diverse prospettive si incontrino, si arricchiscano reciprocamente fino a incontrarsi in un nuovo punto di partenza; allo stesso modo la contrapposizione di due giudizi, necessariamente aprioristici, si trasformerà in conflitto, genererà solo rancori e solchi invalicabili. È indispensabile una cultura del dubbio, del rispetto delle opinioni altrui e, ancor di più, un ritorno alla cultura, allo studio, quella modalità sana e umana che non procede da dogma in dogma, ma da curiosità ad aperture ancor più gravide e felici per la celebrazione della centralità dell’uomo e della sua intelligenza: allora che Towanda sia il nome dell’eroe il cui super potere sia il coraggio del rispetto del libero pensiero.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.