Tra geopolitica e futuro dell’Europa. Cosa può insegnare Edgar Morin sulla crisi ucraina

  • Postato il 20 agosto 2025
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Quando nel 1976 Edgar Morin pubblicava “Per una teoria della crisi”, probabilmente non immaginava che quel breve saggio sarebbe diventato, decenni dopo, una delle chiavi di lettura più attuali per comprendere le grandi turbolenze del nostro tempo. Morin, filosofo e sociologo francese, ha sempre rifiutato la semplificazione, proponendo una visione della realtà come intreccio complesso di sistemi biologici, sociali e politici. La sua intuizione fondamentale è che la crisi non rappresenti un’anomalia da eliminare, bensì una condizione strutturale: ogni sistema attraversa momenti di instabilità in cui l’ordine consolidato non basta più a interpretare il mondo.

Applicare questa prospettiva alla guerra in Ucraina permette di cogliere la natura profonda di ciò che stiamo vivendo. Il conflitto esploso nel febbraio 2022 non è riducibile a una contesa territoriale o a un braccio di ferro militare: è una crisi sistemica che si ramifica in molteplici dimensioni. Tocca l’equilibrio geopolitico globale, mette in discussione la sicurezza energetica dell’Europa, destabilizza le catene di approvvigionamento, influenza i mercati alimentari, alimenta tensioni ideologiche tra democrazie e regimi autoritari. È, insomma, il paradigma della complessità che Morin descrive: un intreccio di fattori che sfugge a spiegazioni unilineari.

In questo scenario si inseriscono i recenti incontri tra Vladimir Putin e Donald Trump, presentati da alcuni come un tentativo di riaprire il discorso su una possibile pace. Guardare a questi eventi con la lente di Morin significa evitare la tentazione di interpretarli solo come episodi mediatici o come manovre tattiche. Essi rappresentano il segnale che il sistema internazionale è in movimento, che anche all’interno di contesti apparentemente bloccati emergono dinamiche di ricerca di nuovi equilibri. Al tempo stesso, però, incarnano il rischio della semplificazione personalistica: la guerra viene ridotta a un confronto tra leader, quando in realtà le sue radici sono profonde e le sue implicazioni riguardano un ordine mondiale intero.

La crisi, ricorda Morin, è ambivalente: perdita di orientamento e insieme occasione di trasformazione. Nel caso ucraino, questa ambivalenza è evidente. Da un lato, il pericolo di una pace apparente, costruita in maniera fragile o strumentale, che congeli il conflitto senza risolverne le cause profonde. Dall’altro, la possibilità di immaginare soluzioni innovative che superino la logica dei blocchi contrapposti e aprano a forme di sicurezza condivisa.

Lo scenario globale accentua questa tensione. Gli Stati Uniti oscillano tra la necessità di sostenere l’Ucraina e il dibattito interno, dove cresce la stanchezza dell’opinione pubblica verso un conflitto percepito come lontano. L’Europa vive la crisi in modo esistenziale: vincolata all’Alleanza Atlantica e dipendente dal sostegno statunitense, ma allo stesso tempo consapevole della propria vulnerabilità energetica e della necessità di sviluppare una capacità strategica autonoma. La Nato, rinvigorita dalla guerra, deve ridefinire il proprio ruolo in un mondo in cui la deterrenza militare si intreccia con minacce ibride, cyber e informazionali.

La Cina osserva con attenzione: per Pechino la crisi ucraina è occasione per rafforzare la partnership con Mosca, ma anche un banco di prova per la sua ambizione di porsi come mediatore globale. Non a caso, la diplomazia cinese ha proposto più volte piani di pace, consapevole che ogni crisi regionale ha ripercussioni sull’economia mondiale e sul delicato equilibrio delle rotte energetiche e commerciali. Anche qui, la lezione di Morin è chiara: la crisi non si esaurisce nel luogo in cui esplode, ma genera concatenazioni che ridisegnano assetti ben oltre il suo epicentro.

E l’Italia? Il nostro Paese vive la crisi ucraina con una duplice sensibilità. Da un lato è parte integrante della Nato e dell’Unione europea, vincolato dunque a una linea di fermezza nei confronti della Russia e di sostegno all’Ucraina. Dall’altro, per la sua collocazione geografica nel Mediterraneo e per la sua storia diplomatica, l’Italia ha una tradizione di ponte tra mondi diversi. L’energia, la sicurezza marittima, i rapporti con l’Africa e il Medio Oriente rendono Roma un attore che, se sostenuto da una visione strategica coerente, potrebbe contribuire a un dialogo più ampio, capace di connettere la dimensione euro-atlantica con quella mediterranea e globale. In altre parole, la nostra posizione ci offre l’opportunità di pensare la crisi non soltanto come spettatori o come alleati, ma come co-architetti di una soluzione che tenga conto delle interdipendenze.

Alla luce del pensiero di Morin, la guerra in Ucraina appare dunque come un banco di prova per la capacità del sistema internazionale di gestire la complessità. Ridurla a una trattativa bilaterale significa ignorarne la natura sistemica; affrontarla con logiche di pura potenza rischia di produrre solo tregue instabili. Solo un approccio che integri dimensioni politiche, economiche, culturali e simboliche può trasformare la crisi in un’occasione di rigenerazione.

La sfida, per l’Italia e per l’Europa, è non limitarsi a reagire, ma assumere la crisi come momento generativo. Non basta “superarla”: occorre comprenderla e utilizzarla come motore di trasformazione. Ed è qui che le parole di Morin, scritte quasi cinquant’anni fa, risuonano con forza: la crisi non è soltanto una minaccia, ma anche una possibilità. Sta alla politica, e in particolare all’Europa, decidere se trasformarla in un’occasione per costruire un ordine più inclusivo e cooperativo, o se lasciarla degenerare in una nuova stagione di instabilità permanente.

Autore
Formiche

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