Trump e i dazi, i “90 accordi in 90 giorni”? Finora solo tre intese (preliminari). E il Tesoro aggiusta il tiro: “Conta la qualità”
- Postato il 7 luglio 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Faremo novanta accordi in novanta giorni. Ogni giorno una nuova vittoria per l’America”. Donald Trump l’aveva promesso durante un comizio in Michigan il 5 aprile, subito dopo aver annunciato una tregua di tre mesi sui dazi reciproci presentati tre giorni prima dal Giardino delle rose della Casa Bianca. A una manciata di giorni dalla scadenza del conto alla rovescia e al netto di qualche probabile accordo dell’ultimo minuto, il bilancio dei successi ottenuti è modesto: solo tre intese preliminari, con Regno Unito, Cina e Vietnam. Nessuna delle quali ha la forma di un trattato internazionale, necessaria per concretizzare davvero un accordo sul commercio. E le trattative con gli altri Paesi e con la Ue non hanno al momento prodotto alcun risultato concreto. Il segretario al Tesoro Scott Bessent, non a caso, ha tentato di aggiustare il tiro. “Ciò che preoccupa il presidente Trump è la qualità degli accordi, non la quantità“, ha dichiarato lunedì alla Cnbc, dopo aver spiegato che la scadenza del 9 luglio è solo sulla carta perché in caso di “no deal”i nuovi dazi comunicati via lettera nelle prossime ore scatteranno solo dall’1 agosto.
L’accordicchio “simile a un pizzo” – Il primo annuncio è arrivato a maggio e riguarda il Regno Unito. Si tratta di un’intesa per ridurre alcune barriere tariffarie su beni industriali e agricoli statunitensi. Londra ha salutato l’accordo come un passo positivo verso un nuovo partenariato commerciale, ma Downing Street ha chiarito che non ci sono tagli tariffari già operativi: serviranno ulteriori negoziati per trasformare la “cornice” in un trattato vero e proprio. Nel frattempo rimarranno in vigore tariffe reciproche del 10% su gran parte dei prodotti Uk, con un gettito previsto per gli Usa pari a 6 miliardi di dollari l’anno. Per il Financial Times, si tratta di un patto “più simile al pizzo pagato a un boss mafioso per avere protezione che a un accordo di liberalizzazione tra paesi sovrani”.
Con la Cina uno scheletro di intesa – La Cina, grande avversario geopolitico, era l’unico Paese escluso dalla tregua di aprile: nei confronti di Pechino era anzi stata annunciata una escalation, con dazi al 125% da sommare alle tariffe aggiuntive decise come ritorsione contro l’export di fentanyl. Come dire: scambi commerciali completamente azzerati. Con quel che ne sarebbe derivato per i gruppi Usa che nella Repubblica popolare acquistano materie prime cruciali come le terre rare e hanno esternalizzato la produzione. A metà maggio, durante negoziati a Basilea, è arrivata però l’inevitabile decisione di prendersi tre mesi per parlarne. A fine giugno il tentativo di de-escalation ha preso la forma di uno scheletro di intesa che prevede da parte cinese un ampliamento delle licenze per l’export di terre rare e un rafforzamento dei controlli su chip e tecnologie dual use, in cambio di una riduzione parziale delle restrizioni americane sull’export high-tech e un allentamento dei visti per studenti. Le tariffe complessive restano alte, intorno al 55% sui beni cinesi e al 10% su quelli americani, i dettagli tecnici restano da definire e tutto deve essere ancora approvato in via definitiva.
Il Vietnam accetta dazi del 20% – Il terzo accordo, annunciato il 2 luglio, riguarda il Vietnam, che in base alla poco sensata formula di calcolo dei dazi reciproci avrebbe dovuto subire tariffe del 46% che ne avrebbero polverizzato l’export. Con ricadute pesanti su gruppi Usa come Nike, che lì produce circa il 50 % delle sue scarpe e il 30 % dell’abbigliamento, Intel e Apple. In base all’intesa, gli Stati Uniti applicheranno un dazio del 20% su tutte le importazioni con un supplemento del 40% sulle merci che risultano “trasbordate” dalla Cina (transshipment) per eludere i relativi dazi. In cambio, Hanoi si impegna a garantire l’accesso senza dazi ai prodotti americani, in settori ancora da definire. Il governo vietnamita ha precisato che si tratta solo di un’intesa di principio e diversi nodi tecnici restano irrisolti.
Incassi da record – La strategia “muscolare” che secondo Trump avrebbe costretto i partner a correggere gli squilibri commerciali causati, a suo dire, dalle amministrazioni precedenti, non ha insomma piegato gli interlocutori come la Casa Bianca si attendeva. Non significa ovviamente che Washington non sia in posizione di forza e non ne stia già beneficiando: a maggio, con la sola tariffa base del 10% più quelle settoriali, gli introiti da dazi sono saliti a oltre 24 miliardi. Il quadruplo rispetto allo stesso mese dell’anno prima. Un “bancomat” che fa comodo a un Paese destinato, per effetto del Big beautiful bill voluto dal tycoon e appena approvato dal Senato, a veder salire il proprio indebitamento di oltre 3mila miliardi nel prossimo decennio.
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