Trump e la nuova diplomazia commerciale tra atti di forza e redditizi accordi economici
- Postato il 16 novembre 2025
- Di Panorama
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L’accordo commerciale, raggiunto da Donald Trump e Xi Jinping a fine ottobre in Corea del Sud, esemplifica il tipo di approccio che il presidente americano ha nei confronti della geopolitica: un articolato mix di pressione, diplomazia e affari, che punta alla ridefinizione dei principali equilibri internazionali, in vista di un riassetto dell’ordine globale. Era del resto un mondo in fiamme quello che Trump, a gennaio, aveva ereditato dalla precedente amministrazione statunitense. Mentre Joe Biden era alla Casa Bianca, gli Stati Uniti avevano perso influenza sull’America Latina a vantaggio della Cina, il Medio Oriente era nel caos e la Russia aveva avviato l’invasione dell’Ucraina. Poi, è arrivato il tycoon, che, adesso, sta cercando di rimettere ordine. La strada è lunga e le incognite restano numerose. Come continuano a registrarsi le copiose “sparate” del presidente, fughe in avanti a volte scomposte nei modi e nelle occasioni che rischiano di mandare all’aria il lavorìo diplomatico dietro le quinte. Tra le più clamorose restano la volontà di annessione della Groenlandia, o la messa sotto tutela Usa del canale di Panama, o l’invasione del Canada. Anche sulle tempistiche, spesso, il tycoon fa cilecca: come quando promise la pace in Ucraina in due settimane.
Risultati diplomatici e accordi di pace
Tuttavia, dei risultati in chiave diplomatica ci sono stati: ha mediato con successo alcuni significativi accordi di pace, da quello tra Armenia e Azerbaigian a quello tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda. Ha anche bombardato e isolato l’Iran per spingerlo a negoziare sul nucleare, portando inoltre a casa una storica intesa per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Senza poi trascurare il suddetto accordo commerciale con Pechino, sulla cui base The Donald ha ridotto i dazi e sospeso le tasse portuali speciali alla Cina, mentre la Repubblica popolare ha differito le restrizioni all’export di terre rare, impegnandosi anche ad acquistare ingenti quantitativi di soia statunitense. Sull’Ucraina, è vero, sta incontrando più difficoltà del previsto. Ma ha almeno avuto il merito di smuovere le acque dopo tre anni di stallo politico-diplomatico. Ha teso, sì, la mano a Vladimir Putin per avviare un dialogo, ma ha, al contempo, messo sanzioni alle compagnie petrolifere russe Lukoil e Rosneft. Infine, Trump sta cercando di far recuperare terreno a Washington anche in America Latina: è in questo senso che va letta la pressione militare statunitense sul regime filocinese di Nicolas Maduro.
La cosiddetta “dottrina Trump”
La domanda da porsi allora è una soltanto: come ha fatto l’attuale commander in chief a fare uscire gli Stati Uniti dall’angolo in cui erano stati messi ai tempi di Sleepy Joe? Da questo punto di vista, è forse interessante dare un’occhiata a quella che potremmo definire la “dottrina Trump”, per cercare di capire quali siano i suoi principi di base e quali le sue applicazioni concrete.
Cominciamo col dire che, pur mutatis mutandis, il presidente americano risulta coerente con quello che fu l’approccio adottato da Henry Kissinger negli anni Settanta: la combinazione, cioè, di diplomazia e uso della forza nel nome di una smaliziata Realpolitik. In altre parole, Trump ha cassato la retorica – tipica tanto del neoconservatorismo quanto del progressismo – dei valori e dell’alleanza delle democrazie contro le autocrazie.
Diplomazia senza rotture e uso della coerzione
L’attuale inquilino della Casa Bianca parla con tutti, non paragona nessuno ad Adolf Hitler e, anche nei momenti di profonda crisi, non interrompe mai completamente i fili della comunicazione. Attenzione, però: questo non significa che egli sia per il dialogo fine a sé stesso. Come accennato, il presidente alterna le trattative all’uso della potenza militare: non a caso, cita costantemente l’espressione reaganiana della «pace attraverso la forza».
L’interlocutore, secondo questa logica, deve essere messo in condizione di debolezza e, soprattutto, costretto a negoziare. Quella del tycoon è dunque una diplomazia che combina deterrenza e coercizione. E questo, soprattutto durante il suo secondo mandato, vale sia per gli avversari (Russia, Iran, Cina) sia per gli alleati (dall’Ue a Israele, passando per il Canada).
Il ruolo centrale degli affari
Ma non è tutto. Oltre all’uso del bastone, la “dottrina Trump” prevede anche il ricorso alla carota: ed è qui che emerge il ruolo centrale degli affari economici. La ricostruzione di Gaza rappresenta, agli occhi del presidente, un elemento fondamentale per il rilancio degli Accordi di Abramo e per sopire le tensioni nella Striscia. Inoltre, quando ha mediato la pace tra Armenia e Azerbaigian, lo scorso agosto, il presidente ha stretto legami economici con entrambi i Paesi, promuovendo la creazione di un corridoio di transito, chiamato Trump route for international peace and prosperity. Non solo.
A ottobre, dopo aver supervisionato la firma del cessate il fuoco tra Thailandia e Cambogia, il presidente americano ha concluso intese commerciali con entrambe le capitali. Infine, anche nei suoi altalenanti rapporti con Mosca, Trump ha più volte solleticato il Cremlino con la prospettiva di allettanti intese economiche.
La logica del benessere come pacificatore
Insomma, l’aspetto “affaristico” si configura come di cruciale importanza. L’obiettivo, per The Donald, è quello di disinnescare la conflittualità politica, etnica o religiosa, facendo leva sul benessere economico: il che consente ovviamente a Washington anche di rafforzare la propria influenza internazionale sotto il profilo geopolitico e commerciale. Certo, c’è chi storce il naso davanti a questo approccio, definendolo interessato e senz’anima. Il tema però è un altro. Nella Storia, le grandi riorganizzazioni internazionali – dalla pace di Vestfalia al Congresso di Vienna – si sono sempre basate sull’interesse degli attori in campo, non sui valori astratti o sulla buona volontà. Il segreto, in sostanza, è quello di rendere la pace più conveniente della guerra: solo così si fermano realmente i conflitti. E questo, piaccia o meno, il leader americano lo ha capito. È d’altronde qui che emerge il senso geopolitico dei suoi accordi commerciali.
Il vero obiettivo strategico: la Cina
Ma qual è il principale obiettivo della “dottrina Trump”? Qual è il fil rouge che lega i suoi approcci ai vari dossier internazionali, dal Medio Oriente all’Ucraina? La risposta è una sola: la Cina. Il presidente americano considera Pechino il rivale sistemico degli Stati Uniti. E quindi tutte le varie questioni geostrategiche che affronta vanno lette anche alla luce della competizione con il Dragone: una competizione che si sta facendo sempre più serrata. È vero: quanto detto può apparire controintuitivo, visto che Trump e Xi Jinping hanno recentemente raggiunto un accordo commerciale. Tuttavia, più che di una pace vera e propria, si tratta forse di una “tregua armata”: è come se due corridori in affanno decidessero di fermarsi brevemente insieme, per riposarsi e poi riprendere la gara.
Segnali di rivalità sottotraccia
A dimostrazione di ciò stanno almeno due elementi. Primo: Trump non ha finora allentato le restrizioni americane all’export di alta tecnologia verso la Cina. Anzi, durante il suo ultimo colloquio con Xi, non è stato neanche affrontato il tema di Blackwell: il super microchip che Nvidia non ha attualmente il permesso di vendere nella Repubblica popolare a causa dei rischi che ciò comporterebbe per la sicurezza nazionale statunitense. In secondo luogo, poco prima del faccia a faccia col presidente cinese a Busan, Trump ha ordinato al Pentagono di riprendere i test nucleari, che Washington aveva sospeso nel 1992. Un annuncio, quello dell’inquilino della Casa Bianca, che ha irritato tanto Pechino quanto Mosca.
Strategia dell’equilibrio e della pressione
Insomma, se da una parte ha concluso una tregua commerciale con il Dragone, dall’altra non è intenzionato ad abbassare la guardia nei confronti della Repubblica popolare. La mediazione americana tra Phnom Penh e Bangkok era d’altronde finalizzata ad arginare l’influenza di Pechino in seno all’Asean, l’associazione delle potenze del Sud-Est asiatico. Inoltre, nel suo recente tour in Asia, l’americano ha rafforzato i rapporti con Tokyo e Seul in funzione anticinese. La stessa pressione militare statunitense sul Venezuela ha l’obiettivo di indebolire un regime, quello di Maduro, che è uno dei principali punti di riferimento del Dragone in America Latina.
E guardiamo poi anche all’Africa. Trump ha minacciato un’azione bellica contro la Nigeria: lo ha fatto, sì, citando le persecuzioni che i cristiani subiscono in loco. Ma non dobbiamo neppure trascurare che Abuja vanta stretti legami con l’ex Celeste impero (tra l’altro, sia la Nigeria che il Venezuela risultano grandi produttori di petrolio). Infine, è vero che, a fine ottobre, il presidente americano ha ridotto i dazi a Pechino, ma li ha comunque lasciati al 47 per cento. E, a proposito di dazi, la logica che sta dietro la strategia di Trump non è soltanto quella di riequilibrare le bilance commerciali con i vari partner. «Se non si è in grado di produrre acciaio e alluminio in casa, non si può combattere una guerra», ed è proprio questo che sta facendo il presidente. Sta cercando di assicurarsi che produciamo acciaio e alluminio a sufficienza per assicurare la nostra difesa, dichiarò, a giugno, il segretario americano al Commercio, Howard Lutnick, difendendo le tariffe imposte da Trump sull’import dei due metalli.
Pressione economica come leva negoziale
Questo vuol dire che i dazi fanno, sì, parte della strategia coercitiva di cui abbiamo parlato: sono, cioè, una leva con cui la Casa Bianca obbliga gli interlocutori ad aprire dei negoziati su temi specifici. Tuttavia, c’è anche dell’altro. Le parole di Lutnick lasciano intendere come Washington punti a tenersi le mani libere e a non precludersi nessuna opzione. Nuovamente emerge l’intreccio inestricabile tra pressione economico-militare, diplomazia e affari. Come detto, Trump parla con tutti: e, sotto questo aspetto, la pressione rappresenta il bastone, mentre gli affari sono la carota. Ciò contribuisce a spiegare per quale motivo gli accordi negoziati dal presidente americano abbiano sempre una rilevante componente economica. E spiega anche perché l’avvio delle trattative sia spesso preceduto da un aumento della tensione tariffaria o militare.
La politica di potenza è tornata in auge. E la “dottrina Trump”, spesso tanto vituperata e fraintesa, non ha fatto altro che prenderne atto.