Trump si intesta anche la pace tra Congo e Rwanda. Prezzo (e silenzi) di un accordo iniquo e forse inutile

  • Postato il 29 giugno 2025
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È stata presentata come la “storica firma di un accordo di pace onnicomprensivo” da Massad Boulos, uomo d’affari statunitense di origini libanesi, nonché consuocero di Donald Trump, che dall’aprile 2025 lo stesso presidente Usa ha nominato “senior advisor” per l’Africa. Nello studio ovale, con l’ormai rituale scenografia, seduto alla sua scrivania, Trump si è intestato il merito di aver messo fine al conflitto fra Repubblica Democratica del Congo e Rwanda. In piedi alle sue spalle, i ministri degli esteri dei due Paesi, Thérèse Kayikwamba Wagner e Olivier Nduhungirehe (foto), oltre al segretario di Stato Marco Rubio, al vicepresidente J.D. Vance e allo stesso Boulos. Un accordo “a tempo indeterminato”, presentato come una tappa miliare ma che in realtà rischia di allungare la lista delle “paci inutili” siglate negli anni fra i due contendenti. Oltre le dichiarazioni di intenti, carte alla mano, il testo appena sottoscritto solleva più di una perplessità. Secondo il Nobel per la pace 2018, il medico e attivista congolese Denis Mukwege, si tratta di una resa alle forze che hanno causato milioni di morti, con l’aggravante di accordi economici in campo minerario a tutto svantaggio della sovranità della RD del Congo, in una logica che definisce “estrattivista neocoloniale“.

L’ultima fiammata della crisi regionale si era registrata tra fine gennaio e inizio febbraio 2025, quando il gruppo armato M23, sostenuto dal Rwanda, aveva conquistato fette sempre più grandi delle province congolesi del Nord e Sud Kivu, occupandone i capoluoghi Goma e Bukavu. Spenti i riflettori, la situazione non è certo migliorata: le zone sotto occupazione da allora vivono nella morsa di un controllo capillare del territorio, con continue esazioni alla popolazione e frequenti esecuzioni extragiudiziali, l’assoluta mancanza di denaro circolante con tutte le immaginabili conseguenze (le banche sono state chiuse a fine gennaio e non hanno più riaperto), l’occupazione totale dei siti minerari con ingenti guadagni che alimentano le casse dell’M23. Al cui fianco combattono 3/4mila soldati regolari rwandesi: cosa nota e tuttavia sempre ufficialmente negata). Ebbene: di tutta questa situazione, negli accordi non c’è traccia. Si ribadisce sì l’integrità territoriale da rispettare, eppure l’M23, protagonista dell’occupazione del Kivu, è nominato solo due volte e in entrambe si scrive soltanto che “le Parti sostengono i negoziati in corso tra la Rd del Congo e l’AFC/M23, mediati dallo Stato del Qatar”. Dunque, un negoziato parallelo ancora in corso e non incluso nell’accordo odierno.

I punti principali di questo “deal” sono invece l’impegno di Rd del Congo e Rwanda a cessare le ostilità dirette e indirette, a rispettare le frontiere, a proteggere i civili e a consentirne la libera circolazione; l’impegno di entrambi a non sostenere più i gruppi armati e le attività ostili, nemmeno all’estero. Eppure, in questo passaggio così importante, l’unico gruppo armato di cui si parla sono le FDLR, i miliziani eredi dei genocidari rwandesi di trent’anni fa. Un gruppo ormai ridotto a poche centinaia di uomini, in passato sostenuto dal governo congolese in funzione anti-rwandese, ma altrettanto usato come giustificazione dal Rwanda stesso per motivare le proprie incursioni oltre confine. Ecco, il Congo si impegna ora a “neutralizzare le FDLR”, mentre il Rwanda ritirerà le sue truppe dalla frontiera ed eliminerà le “misure difensive”, ovvero le operazioni militari (finora ufficialmente sempre negate dal governo di Kigali). Più avanti nel testo, tuttavia, si specifica che, di fronte a una minaccia specifica, saranno consentite azioni militari mirate congiunte: il che, in buona sostanza, significa che le forze armate rwandesi potranno tornare in RdCongo, se il Rwanda si sentisse minacciato. Come in un gioco dell’oca, si potrà ripartire dal via.

Un passaggio molto importante per la vita di milioni di persone è invece quello che chiede alle parti di “facilitare il ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati” “nei loro paesi di origine” e di “consentire il ritorno degli sfollati interni nei loro luoghi di provenienza”. Ma il vero cuore dell’accordo è un altro: quello economico. Del resto, all’indomani della disfatta davanti all’M23, era stato lo stesso presidente congolese Félix Tshisekedi a offrire a Trump su un piatto d’argento le immense risorse minerarie del sottosuolo congolese, in cambio di un aiuto statunitense per riprendere il controllo della sovranità territoriale del Kivu. Detto, fatto. E ieri, nella sala ovale, Trump non ha perso l’occasione per rimarcarlo: “Stiamo ottenendo, per gli Stati Uniti, molti dei diritti minerari del Congo”. Con toni edulcorati, nel testo dell’accordo si legge di mosse per “avviare, entro tre mesi, il quadro di integrazione economica regionale a più fasi”. L’impegno dichiarato è quello di introdurre “una maggiore trasparenza” nella catena di approvvigionamento dei minerali critici, “bloccando i canali economici illeciti e garantendo maggiore prosperità per entrambe le parti, in particolare per la popolazione della regione, attraverso partnership e opportunità di investimento reciprocamente vantaggiose”. Questa “integrazione bilaterale” avvierà la cooperazione anche sulla gestione dei parchi nazionali (al confine fra i due paesi si trova il parco più antico d’Africa, il Virunga), lo sviluppo dell’energia idroelettrica, la riduzione del rischio nelle catene di approvvigionamento minerario, la gestione congiunta delle risorse nel lago Kivu (un lago limnico, nelle cui profondità si trova un enorme giacimento di gas) e catene minerarie end-to-end, trasparenti e formalizzate (dalla miniera al metallo lavorato) che collegano i due paesi. Anche in partnership, ove opportuno, con il governo e gli investitori degli Stati Uniti.

Al fianco degli Usa, l’altro attore chiave in questo accordo è il piccolo Qatar, entrato in gioco a sorpresa lo scorso marzo e oggi indicato nero su bianco come membro del comitato di monitoraggio dell’accordo. È proprio il Qatar ad aver stretto forti legami economici con il Rwanda, in questi ultimi anni: detiene infatti il 60% di RwandAir ed è uno dei principali finanziatori del nuovissimo grande aeroporto di Bugesera. Investe massicciamente anche in altre infrastrutture, nonché nelle fabbriche per la raffinazione dei minerali che sono in fieri. A febbraio, Doha ha abolito l’obbligo di visto per i cittadini rwandesi. Un mediatore, dunque, con diversi interessi in gioco. Sul terreno, lo scetticismo impera. La gente – che di accordi ne ha visti diversi negli anni, tutti sfumati – non pare dare molto credito a quest’ultima mossa statunitense. Dal canto suo, il portavoce dell’M23 Lawrence Kanyuka ha già dichiarato: “A coloro che pensano che lasceremo Goma e Bukavu… chiediamo: lasciare per andare dove? Noi siamo a casa nostra”. Più articolata è la riflessione del premio Nobel congolese Mukwege: “Dovremmo accogliere con favore una nuova iniziativa di pace per mettere a tacere le armi e porre fine alle sofferenze della popolazione civile”. “Ma una pace giusta e duratura non può essere raggiunta a qualunque prezzo: firmando questo accordo, il regime di Kinshasa ha abbandonato la propria sovranità alle forze dell’aggressione e legittimato l’occupazione e le operazioni di un esercito che ha causato milioni di morti, centinaia di migliaia di donne violentate e lo sfollamento di milioni di congolesi”. Ancora: “Sotto l’egida della cooperazione economica, i minerali congolesi saranno esportati, per non dire “svenduti”, allo stato grezzo in Rwanda, che li trasformerà ed esporterà nel resto del mondo sotto forma di prodotti semilavorati o finiti, in una logica estrattivista neocoloniale che perpetuerà il sottosviluppo nella RDC”. “Facciamo quindi appello alla presa di coscienza del popolo congolese e alla responsabilità del governo e del Presidente della Repubblica, custode della nostra Costituzione.” E conclude in un modo perentorio e per lui del tutto inusuale: “Nel caso in cui le nostre autorità non rispettassero la Costituzione o il diritto internazionale, saremo costretti a chiamare il popolo a una vera rivoluzione democratica per esigere il ripristino della nostra sovranità e integrità territoriale”.

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