Una Toulouse-Lautrec in Svizzera. Basilea celebra l’arte di Irène Zurkinden

  • Postato il 2 agosto 2025
  • Arte Moderna
  • Di Artribune
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Alla Kulturstiftung Basel H. Geiger, la mostra Irène Zurkinden: Love, Life documenta il fluido linguaggio visivo di Irène Zurkinden (Basilea, 1909-1987) e la profondità del suo impegno nei confronti di tematiche che spaziano dall’intimo al politico. Sebbene sia conosciuta soprattutto per i ritratti e le vedute urbane, l’esposizione offre una panoramica su disegni, dipinti e taccuini meno noti, alcuni dei quali inediti.

Zurkinden: una carriera fra Basilea e Parigi

Allieva dal 1925 della scuola d’arte di Basilea, dove sembra abbia incontrata Meret Oppenheim, quattro anni più tardi, grazie a una borsa di studio, Zurkinden si trasferì a Parigi con Arnold Fiechter, e nella capitale francese abbracciò la cultura “liberata” ed ebbe una vita sentimentale assai disinibita, con amanti sia uomini sia donne, tra cui la citata Oppenheim, anche lei pittrice. Nel 1934 incontrò Kurt Fenster, un musicista jazz metà tedesco e metà afrobrasiliano con cui ebbe due figli. Iniziò a dividere il suo tempo tra le città, bilanciando due aspetti contrastanti della sua vita: la famiglia a Basilea e l’autonomia a Parigi. Ovunque si trovasse, continuava a fare arte, e la sua versatilità artistica non passò inosservata; Descritta come una “Toulouse-Lautrec vivente” dal mercante d’arte Christoph Bernoulli, era ammirata per la sua capacità di bilanciare l’arte figurativa con il lavoro commerciale, fondendo al contempo la sobria realtà della vita con immagini surreali e oniriche.

Irène Zurkinden, Rue d’Odessa en fête, 1935. Helvetia Art Collection
Irène Zurkinden, Rue d’Odessa en fête, 1935. Helvetia Art Collection

La mostra dedicata a Zurkinden a Basilea

Fu, quello parigino, il periodo più importante e fecondo della sua vita artistica – che divise con brevi rientri a Basilea -, ma che s’interruppe nel 1941, con la città ormai occupata dalle truppe naziste dal giugno dell’anno precedente. Con il definitivo rientro in Svizzera, Zurkinden si trasferì a Basilea e nel 1942 si unì al Gruppo 33, composto da artisti, architetti, poeti, musicisti, attori e scrittori. Era stato fondato il 10 maggio 1933, lo stesso giorno del barbaro rogo di libri voluto in Germania dal regime nazista. Dopo la Seconda guerra mondiale, Zurkinden visse fra Basilea e Parigi, ma compì lunghi viaggi in Marocco, Spagna e Italia. In quegli anni disegnò costumi e scenografie per lo Stadttheater di Basilea e si dedicò sempre più all’illustrazione di libri, anche se continuò a dipingere regalando al mondo interessanti ed evocative opere. Nel corso di tutta la carriera l’artista rimase coerente al suo approccio, nello spirito e nella profondità: che si trattasse di ritrarre figure umane, oggetti, situazioni o paesaggi, coglieva soltanto l’essenziale,

Il teatro e la danza secondo Zurkinden

Zurkinden fu sempre attratta dal teatro e dal balletto, perché natura dinamica della performance dal vivo le permetteva di osservare e preservare attimi fugaci, immortalandoli nella sua arte. Appassionata spettatrice di centinaia di spettacoli, che le fornirono un’ispirazione inesauribile, l’artista non si limitava a documentare ciò che vedeva, ma incarnava l’essenza stessa dell’esperienza teatrale, intessuta nella sua vita fin da giovane. Da un punto di vista pratico, i costumi disegnati in gioventù e la realizzazione di costumi e scenografie per lo Stadttheater di Basilea, rappresentano lo sbocco più strettamente materiale. Ma l’afflato teatrale si ritrova anche nelle sue pitture; infatti, non è un mistero che Zurkinden fosse attratta dalle donne, con attrici e ballerine spesso scelte come soggetto delle sue opere, cui infonde dolcezza e raffinata femminilità.

Il ritratto nell’opera di Zurkinden

Realizzati combinando Impressionismo, Espressionismo, Nuova Oggettività, e persino un po’ di Surrealismo, con un mix di colori vivaci e terrosi (la sua tavolozza distintiva), i ritratti di Zurkinden esprimono potenza e sensualità, in particolare gli audaci nudi , nell’atmosfera dei quali si intuisce la libertina Parigi, ideale quinta teatrale e sfondo di vite audaci e “peccaminose”, in quegli anni Trenta in cui la città sfolgorava per l’ultima volta come capitale mondiale della cultura e del beau monde.
Sia nei ritratti sia nei nudi, non è sempre chiaro chi siano i suoi soggetti; realizzò autoritratti e dipinti di persone note, tra cui Fenster e vari mecenati, ma molti soggetti rimangono misteriosi. Non così l’amica Meret Oppenheim, cui dedicò, fra gli altri, Meret à l’orange, enigmatico e suggestivo incontro tra la figura femminile e la natura morta. Zurkinden precorse le successive tendenze pittoriche della decostruzione della figura, praticate da artisti quali Cecily Brown e George Condo. E nei ritratti, così come nelle scene d’interno, mantenne sempre un ruolo di osservatrice, cercando di catturare l’energia di un momento, attraverso i soggetti, piuttosto che la propria estetica. I suoi ritratti rivelano momenti silenziosi e nascosti, sono rappresentazioni intime dell’interiorità umana, femminile in particolare, e incorporano in maniera peculiare elementi del pensiero e dell’estetica sia surrealisti sia modernisti.

Il paesaggio nell’opera di Zurkinden

È nel paesaggio che la radice impressionista si mantiene più forte, anche se “corretta” in graffiante ottica modernista. “Affamata” di vita urbana, Zurkinden si spostava tra Parigi, Basilea, Berlino e Venezia, senza mai fermarsi a lungo nello stesso posto. Ogni città le forniva nuova ispirazione e, in ogni tappa, si immergeva in nuovi circoli artistici, stabilendo conoscenze e legami che lasciarono un’impronta duratura sulla sua pratica in evoluzione. Attorno agli Anni Trenta, forse ispirata dai suoi numerosi viaggi in treno, i suoi dipinti iniziarono a riflettere il paesaggio mutevole al di là del finestrino, metafora di un grande teatro che si svolgeva davanti ai suoi occhi, o forse del dinamismo dell’esistenza, che la modernità rendeva sempre più vorticosa.
Attraverso la sua pittura, Zurkinden immortalò gli ultimissimi echi della Belle Epoque che la Seconda guerra mondiale avrebbe definitivamente spazzati via.

Niccolò Lucarelli

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Artribune

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