Una vetrata di meno. L'incidente al Mimit che ha distrutto una parte dell'opera di Mario Sironi

  • Postato il 13 novembre 2025
  • Di Il Foglio
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Una vetrata di meno. L'incidente al Mimit che ha distrutto una parte dell'opera di Mario Sironi

Chi rompe paga e i cocci sono suoi, ma forse non nel caso della vetrata malauguratamente rotta dall’assessore regionale della Sardegna Emanuele Cani, scivolato per le scale del ministero delle Imprese e del Made in Italy l’altro giorno, facendo patatrac senza fortunatamente farsi troppo male. Ironia della sorte Mario Sironi, autore della vetrata, nacque proprio in Sardegna sebbene per caso – era di famiglia lombarda – e però cresciuto a Roma dove nel 1932 Marcello Piacentini, coadiuvato da uno dei suoi tanti brillanti collaboratori come l’ingegnere bolognese Giuseppe Vaccaro, lo chiamò per realizzare questa vetrata monumentale: tre pannelli alti dieci metri e larghi complessivamente oltre sette, più di settanta metri quadrati di pittura nel Palazzo delle Corporazioni di Viva Veneto (oggi sede del ministero presieduto da Adolfo Urso), come si può leggere in Elena Pontiggia, Mario Sironi. La grandezza dell'arte, le tragedie della storia (Johan&Levi 2015).

Non è un caso isolato: solo l’anno prima, nel 1931, nel Palazzo Aeronautica Militare il ministro Italo Balbo aveva voluto decorare le sale principali del suo dicastero chiamando un aeropittore dalmata: nella scorsa primavera sono state aperte al pubblico per la prima volta grazie alla mostra curata da Barbara Martorelli, “Tullio Crali. L’evoluzione del volo” chiusa a maggio. In via Veneto invece il disegno della vetrata, in sintonia con l’edificio cui era destinata, aveva per tema la Carta del Lavoro voluta dal ministro Giuseppe Bottai e promulgata nel 1927, mostra un popolo di lavoratori, sovrastati da un fascio littorio e da una Vittoria armata che procedevano in strisce parallele, quasi come in una nuova Colonna Traiana. Si era allora nel bel mezzo di una grande stagione di arte e architettura pubbliche, sollecitate dal dilagante keynesismo dopo la crisi internazionale del 1929, non solo in Urss e Italia ma persino negli Usa. A Roma, nei ministeri e nella Città universitaria (1932-35), e a Milano, nei grandi cantieri pubblici come quello per il Palazzo di Giustizia (1932-1940) e tutti orchestrati da Piacentini, si era creata una collaborazione fra i diversi architetti, scultori (Arturo Martini, Attilio Selva) e pittori come Cavalli, Ferrazzi, De Chirico, Savinio, Mafai, Casorati, ma Sironi svettava su tutti. Sempre nel 1932 – prima in un articolo pubblicato sul Popolo d’Italia e pochi mesi dopo nel suo manifesto muralista (sicuramente concordato con Margherita Sarfatti) – Sironi infatti affermava: "La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori. L'attuale rifiorire della pittura murale, e soprattutto dell'affresco, facilita l'impostazione del problema dell'Arte Fascista".

L’attività sironiana investiva dunque anche le arti minori o arti applicate come gli arredi e appunto le vetrate di ascendenza medievale, pubblicate assai dalla “Domus” di Gio Ponti, che oltre all’arte e all’architettura è stato fra i primi a dare dignità artistica alla ceramica, ai tessuti artigianali (tende, tappeti, tovaglie), alla moda, agli arredi fissi e mobili quando la parola design ancora non esisteva. Nel 1933 l’esempio di Sironi veniva imitato anche a New York nel Rockefeller Center voluto da Nelson, dove un grande murales del messicano Diego Rivera raffigurava la lotta tra capitalismo e comunismo, con al centro un operaio che controlla una grande macchina. Appena si venne a sapere che sul lato sinistro era stato inserito Lenin, che stringe le mani ad un gruppo multirazziale di operai, iniziò lo scandalo cavalcato dal New York Times finché Rivera, pur pagato adeguatamente, fu cacciato e lo scandaloso murales cancellato l’anno dopo – chissà che il nuovo sindaco Mamdani ora non lo recuperi.

In Italia invece le istanze socialiste sironiane non davano scandalo, viste le origini politiche del duce, e come ha notato Pontiggia “nella pittura murale, dunque, istanza stilistica e utopia sociale, poetica romantica e slancio egualitario giungono a coincidere, in un’aspirazione wagneriana all’opera d’arte totale”. Una stagione che continuò fino alla Guerra e in una certa misura anche dopo, con la cosiddetta legge del due per cento che per ogni lavoro pubblico detinava quella quota a decorazioni artistiche d’autore nei nuovi uffici Inps, Inail, Camere di Commercio ecc. L’incidente sarebbe potuto capitare a chiunque, ma il restauro della vetrata di Sironi non dovrebbe essere troppo problematico viste le grandi competenze italiane in questo campo.

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Autore
Il Foglio

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