Val d’Aosta da scoprire. Un territorio tra natura, archeologia e arte contemporanea

  • Postato il 31 luglio 2025
  • Turismo
  • Di Artribune
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Ci sono cose che nessuno ci dirà. E poi ce ne sono altre che non conosciamo e altre ancora che rischiano di non poter essere conosciute.
Nessuno mi ha suggerito di andare ad Aosta, una volta solamente sono stato invitato al MAR – Museo archeologico regionale e al MegaMuseo – Area Megalitica di Aosta per visitarne le collezioni e i tesori nascosti nelle pieghe di una città dalla storia plurimillenaria. La visita all’Area Megalitica è stata una sorpresa notevole, poiché essa rappresenta non solo un caso studio eccezionale di musealizzazione di un sito archeologico, ma anche perché racchiude un sito con reperti di oltre 6mila anni di storia e, tra i suoi simili, è il più esteso di Europa al coperto. Una manciata di altre volte mi è capitato di passare del tempo in quelle valli per puro piacere, scoprendone un paesaggio sublime fatto di vallate profonde, ghiacciai imponenti e vette maestose. Altre ancora ho goduto alla vista di interventi contemporanei di Olivo Barbieri, Hamish Fulton, Laura Pugno e tanti altri artisti in interazione con la fragile complessità del contesto per ragionare sulla questione ambientale. Ormai più di dieci anni fa, direi, quando la questione non era abbondantemente dibattuta e presente nell’arena pubblica. Voci che raccontano dell’unicità degli istanti. Un paesaggio che ho conosciuto più attraverso le immagini e l’immaginazione che dall’esperienza diretta.

Aosta e il suo territorio: una delle dodici meraviglie d’Italia

Una città e un territorio che, in un modo o nell’altro, sono collegati all’idea di custodia, svelamento, traduzione della tradizione. Uno degli aspetti che rende l’umanità unica è la capacità di creare e trasmettere storie per attuare nuove visioni del mondo e, in questo senso, Aosta e il suo territorio rappresentano una delle “dodici meraviglie d’Italia”. L’articolo 6 della Costituzione Italiana, infatti, inscrive questa popolazione tra le cosiddette “minoranze linguistiche”, ovvero tra quelle comunità storiche di parlanti che ricorrono e si riconoscono nell’uso di una lingua materna diversa da quella della maggioranza dei parlanti dello Stato di appartenenza. 

Un territorio di frontiera in cui lingua e identità si stratificano come rocce

Aosta non è soltanto una città alpina, dunque, ma è anche un territorio-frontiera, dove lingue e identità diverse si stratificano come le rocce delle sue valli, come studiato dal linguista Berruto. In questo angolo di nord-ovest italiano, infatti, il paesaggio umano è disegnato da voci molteplici: il francese, lingua co-ufficiale; il francoprovenzale, ancora vivo nei piccoli comuni delle vallate; e il walser, un tedesco arcaico custodito nelle alte quote della Valle del Lys. Per di più, impostosi nelle forme scritte nel XV secolo, il francese era stato riconosciuto lingua ufficiale nel XVI secolo, arrivando oggi ad essere tutelato per legge dello statuto speciale regionale e vivendo – così – in regime di co-ufficialità con l’italiano. Quando i Savoia passarono la mano, infatti, fu il regime fascista a modificare il profilo linguistico di un’area porosa come questa, strategica e dedita agli scambi di merci e persone, istituendo il ruolo unico per l’italiano come lingua per l’istruzione e l’avvio della politica di italianizzazione della toponomastica.  

In val d’Aosta il bilinguismo istituzionale si trasforma in geografia culturale

La Valle d’Aosta è l’unica regione italiana in cui il bilinguismo istituzionale è sancito dalla Costituzione e praticato – almeno formalmente – nella vita pubblica, anche se le ultime rilevazioni dicono che l’italiano è oggi la lingua principale per il 72% dei residenti, mentre l’uso attivo del francese è marginale. Ciò che distingue le minoranze linguistiche di Aosta da quelle di altre regioni italiane – come il friulano, il ladino o il sardo – è il rapporto storicamente istituzionalizzato con la lingua dominante. Anche in questo contesto “protetto”, tuttavia, le lingue minoritarie mostrano segni di fragilità, erose da mutamenti sociali e dall’impatto delle tecnologie. La lingua, qui, non solo trasforma ma è un paesaggio sonoro, una forma di esistenza, una geografia culturale.

Giangavino Pazzola

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Autore
Artribune

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