Venezia 2025, niente sesso siamo Shakers: “The testament of Ann Lee”, il musical kolossal indie sull’utopia di una predicatrice del ‘700 incanta tutti

  • Postato il 1 settembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Dio è sia maschio che femmina e per conquistare il paradiso bisogna sia lavorare che smettere in assoluto di fornicare. Al giro di boa di Venezia 2025 arriva finalmente del grande cinema. Bisogna andare a scavare a metà settecento tra le scartoffie storico religiose di Inghilterra e nascenti Stati Uniti. Lì si trova la vita di Mother Ann, fondatrice della religione degli Shakers e protagonista di un autentico uragano filmico come “The testament of Ann Lee”, diretto dalla regista norvegese Mona Fastvold. Un dramma storico potentissimo e ultrarealistico che si ibrida magistralmente con il musical.

“The testament of Ann Lee” è il racconto di un’utopia spirituale in terra, di una nuova idea di comunità paritaria tra i sessi inventata e propugnata da una donna, come simbolicamente la celebrazione di un atto coraggioso, radicale, ri-generativo proprio di quel cinema anni settanta autenticamente sperimentale nonché filosoficamente bigger than life. La giovane Ann (una strabiliante e strabiliata Amanda Seyfried), figlia di un fabbro, sposata con un altro fabbro, e madre in breve tempo di quattro figli, è costretta a spolparsi dita e inalare schifezze nell’industria tessile di Manchester di metà anni cinquanta del Settecento.

Dopo aver partecipato ad una funzione religiosa quacchera dove si pratica il culto tra canti e balli estatici comincia ad avere delle visioni che comprendono il peccato originale, nonché l’immagine di un albero dalla luce ardente. È il futuro verbo degli Shakers che prima si svilupperà tra processi, accuse di eresia, arresti e distanziamento sociale proprio nella città inglese poi, dal 1774, nella nuova comunità di Niskayuna, a Nord di Albany oltre la riva sinistra dell’Hudson. Dai sei membri che sbarcano in un’America ancora sotto il dominio britannico, gli shakers faranno proselitismo costruendo diversi villaggi e rigogliosi campi agricoli, elevando a figura di rilievo anche politico la volitiva e minuta Ann Lee, leader religiosamente carismatica in un mondo, e non solo, cadenzato da potere, violenza e desiderio maschile.

Al centro del culto in esame, come del film della Fastvold, c’è questa sorta di storicamente reale estasi dinamica nella preghiera che diventa movimento coreografico continuo, corale, travolgente. Una spirale umana che si apre e chiude con armonica grazia, che si incastra nel minimo dettaglio tra braccia, corpi, teste, gambe, chiaramente ricalibrata in chiave perfezionista forzatamente contemporanea (le coreografie sono di Celia Rowlson Hall mentre le litanie sferraglianti pop sono di Daniel Blumberg). Una soluzione filmica che mostra come Fastvold preferisca l’antispettacolarità di linee di dialogo scabre e succinte mai in primissimo piano, affermandosi come una di quelle realizzatrici che ha in mente invece il proprio film prima di tutto per immagini.

La granulosità dei 70mm, la cupezza naturalistica della fotografia, la puntigliosa kubrickiana ricostruzione del vestiario e della luce d’epoca, fanno di “The testament of Ann Lee” un copioso kolossal indie (è costato solo 10 milioni di dollari!) stilisticamente impeccabile. C’è un lungo take, quasi a metà film, quello della prima visione di Ann dove la macchina da presa di Fastvold le esplora rapidamente mani, braccia e viso, “percorrendola” senza stacchi avanti e indietro, in un’estasi registica che non può che ammirevolmente e femminilmente sovrapporsi allo slancio oltre le regole sociali e le consuetudine della fede compiute dal personaggio ritratto. Così come Fastvold ha collaborato alla scrittura e alla produzione di The Brutalist diretto dal marito Brady Corbet, Corbet ha fatto lo stesso per The testament of Ann Lee.

Dopo un picco di alcune migliaia di adepti a metà ‘800, gli shakers statunitensi sono rimasti in 3 e tutti concentrati in un piccolo villaggio del Maine.

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Il Fatto Quotidiano

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