Versi che non sostituiscono la vita

  • Postato il 10 maggio 2025
  • Di Il Foglio
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Versi che non sostituiscono la vita

A metà Novecento, nella poesia italiana inizia a intravedersi una costellazione esistenzialistico-religiosa, o spiritual-intimista, formata soprattutto da voci femminili: Maria Luisa Spaziani, Fernanda Romagnoli, Alda Merini, Margherita Guidacci… A volte la tonalità sentimentale è accompagnata da un certo virtuosismo metrico, a volte da un più selvatico lirismo. In genere, comunque, gli spunti eclettici si amalgamano in un discorso poetico sostenuto e relativamente uniforme.

 

Oggi Interno Poesia propone un volume di testi editi e inediti di Margherita Guidacci, riunendoli sotto il titolo “Sull’alto spartiacque”. L’espressione è tolta a un componimento giovanile (“Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi ed i morti”) che per stile e tema dice molto dell’autrice. Non è, insomma, del tutto arbitrario. Più arbitraria sembra invece, qua e là, la scelta antologica dei curatori Giuseppe Marrani e Benedetta Aldinucci, che però hanno il merito di aggiungere alle liriche alcune brevi presentazioni delle raccolte da cui provengono. Cresciuta nella Firenze ermetica, Guidacci rifiuta il culto della poesia come surrogato della religione. Lei crede per davvero, con tutte le inquietudini di una colta donna di fede del XX secolo: dunque i suoi versi non sostituiscono la vita ma la scortano. Il che spiega perché, al bisogno, possano anche uscire dallo spettro estetico e farsi preghiera privata o alta retorica civile (sul golpe cileno, sulla strage di Bologna). All’“accostamento magico di suoni” Guidacci preferisce l’“accostamento drammatico di significati”: quelli che offrono l’esperienza quotidiana e il pensiero, i classici e il lavoro di traduzione dall’inglese. I debiti culturali confluiscono con naturalezza nel dettato di questa scrittrice suggestionata dal versetto biblico, dalle sentenze presocratiche, dai poeti metafisici, da Dickinson e da Eliot. Il suo discorso oscilla tra l’aforisma e il recitativo. Il rischio è la convenzionalità, il pregio è la lotta frontale con le occasioni che ci affida il mondo, la fermezza con cui viene osservata una realtà spesso terribilmente arida. Si veda il serpente di endecasillabi un po’ luziani del “Giorno dei Santi” (1957): l’autunno, il confronto tra il mare e il grembo, la vecchiaia incombente… Che siano toscani o nordici, i paesaggi di Guidacci hanno sempre un colore di cenere: ma anziché insegnarle un’amarezza scaltrita, montaliana, la loro nuda “terra di nessuno / non più nostra, non ancora di Dio” continua a invitarla alla trepidazione. Dove suona definitiva, lo è semmai con accenti biblici: come nell’oratorio ispirato alla parabola evangelica dell’epulone, in cui il ricco ormai morto evoca le mosche “imparziali” che “sciamavano dalle mie vivande” alle piaghe del mendicante Lazzaro, e in cui la sua ex amante ricorda com’era già freddo da vivo, quando lei gli si stendeva accanto incatenata al suo denaro, per poi rivedersi nello specchio del mattino simile a “un’annegata che lentamente risaliva”. L’immagine dell’annegata ci porta all’acqua, elemento onnipresente in questa poesia. Se l’attesa di Dio ne rappresenta la parte cristiana, i monotoni fondali marini ne riflettono l’istanza fatalistica, “greca”. “Il vuoto si difende. / Non vuole che una forma lo torturi” scrive memorabilmente Guidacci: e se la forma s’incarna, paga poi il fio secondo l’ordine del tempo - cioè torna ciclicamente al nulla. Oppure sconta la colpa raggelandosi, come accade alla paziente psichiatrica di “Nerosuite” (1970). Ma da credente abituata ai paradossi moderni, perfino nella disperazione Guidacci ribadisce che l’“esistere” sarà infine giustificato in sé, nel suo “lucente attimo” – “Anche se nessuno / mi avesse guardata”.

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Autore
Il Foglio

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