Vi spiego perché l’unico voto sensato è l’astensione. Scrive Cazzola

  • Postato il 4 giugno 2025
  • Politica
  • Di Formiche
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Sui referendum mi vanto di avere le idee chiare. Premetto che non ho dubbi sul quesito che riguarda la cittadinanza, anche se credo che i promotori abbiano sbagliato a mettersi insieme alla compagnia che sostiene i referendum sul lavoro. Il solo di questi ultimi che può essere condivisibile è quello sulla sicurezza del lavoro. I promotori mentono anche su questo quesito perché lasciano intendere che da esso possa venire la responsabilità in solido dell’appaltante anche per gli infortuni nell’azienda appaltatrice. Invece è una normativa che esiste da anni, salvo alcune eccezioni, per altro ragionevoli, che con la vittoria del Sì sarebbero abolite. Visto però che ne deriverebbe una maggior tutela per il lavoratore (come ha fatto notare la Consulta nella sentenza di ammissione del quesito) penso che ritirerò la scheda e voterò Sì. Cosa che non farò per gli altri tre quesiti che a mio avviso sono inutili, disonesti o dannosi. Iniziamo dagli aspetti di carattere politico.

Soprattutto nel referendum sul jobs act si profila un disegno della sinistra reazionaria per cancellare il lavoro di quella riformista, senza che ai lavoratori derivi alcun beneficio dall’eventuale vittoria del Sì. Anche in questo caso Landini e i suoi ascari mentono, lasciando intendere che sarebbe ripristinata la reintegra nel posto di lavoro in ogni caso di licenziamento illegittimo come prevedeva l’articolo 18 dello Statuto del 1970. Non è così. Nel caso di abolizione totale del decreto che ha istituito il contratto a tutele crescenti (peraltro già massacrato dalla giurisprudenza costituzionale), sarebbe in vigore l’articolo 18 come modificato dalla legge n. 92 del 2012 che ha già disposto il risarcimento economico nel caso di illegittimità del licenziamento per motivi oggettivi.

Il jobs act è stato un provvedimento complesso, costituito da una legge delega da cui sono derivati ben otto decreti delegati su varie materie attinenti alla modernizzazione del diritto del lavoro attesa da vent’anni. Il brain trust che vi ha lavorato, sotto la guida di Tommaso Nannicini, era composto da intellettuali prestigiosi, capaci di avventurarsi lungo percorsi innovativi dove non erano riusciti ad arrivare governi di centrodestra. Giustamente disse Renzi a suo tempo le misure del jobs act erano venute con venti anni di ritardo. Poi il c.d. jobs act (dlgs n.23/2015), come ha subito rilevato la Consulta nella sentenza n.12/2025, è già stato ampiamente mutilato. Ricordate Maramaldo? Abrogarlo è come ammazzare un uomo morto. Inoltre, non risulta che siano aumentati i licenziamenti, mentre è aumentata l’occupazione in larga misura a tempo indeterminato.

E qui il discorso si sposta sul quesito per il lavoro a termine, una tipologia di rapporto in declino come dimostrano i dati (da ultimo la Relazione della Banca d’Italia). Ma se passa il referendum verrebbe a mancare ogni flessibilità nelle assunzioni a termine; ora sono consentite per 12 mesi senza l’indicazione di una causale, che diventa necessaria trascorso questo periodo secondo le indicazioni previste nei contratti collettivi. L’esistenza di una causale è sempre accertabile in giudizio e quindi avremmo un incremento del contenzioso. È una pia illusione, poi, pensare che un’azienda assuma a tempo indeterminato per evitare il rischio di essere chiamata in giudizio alla conclusione di un rapporto a termine. Peraltro, come ho detto, è in corso un processo reale che vede la trasformazione dei contratti a termine in tempo indeterminato e che rischierebbe di irrigidirsi. Quanto alle piccole imprese, se si mettono insieme il referendum che le riguarda con quello sul jobs act, esse rischiano di dover pagare una indennità risarcitoria superiore a quelle previste per le grandi, che peraltro si ridurrebbe da un max di 36 mensilità ad uno di 24.

Quanto all’espressione del voto non riesco a comprendere i motivi di coloro che invitano a votare No. Evidentemente sono contrari ai quesiti e agli effetti di una loro affermazione; ma votando No è come se si esprimessero per il Sì visto che contribuirebbero al raggiungimento del quorum: una circostanza questa che darebbe sicuramente la vittoria ai Sì, il solo schieramento in campo, impegnato nella campagna elettorale con mezzi, attivisti e risorse economiche (quelle di cui dispone la Cgil). In giro non si vede uno solo cartello per il No. Le forze che si sono mobilitate in tal senso sono minoritarie e si limitano a fare testimonianza, per nulla in grado di contrastare l’Armata rossa mobilitata per il Sì. Mi sentirei di paragonare tale scelta ad una carica della Cavalleria contro i cannoni o i panzer dei nemici. Trovo invece comprensibile il richiamo all’astensione da parte dei principali partiti di maggioranza. Avrei giudicato stupido un atteggiamento diverso. Le forze della maggioranza non hanno alcuna responsabilità delle norme sub judice, anzi le hanno osteggiate dall’opposizione (a mio avviso sbagliando). Se avessero preso una posizione esplicita, nel referendum, avrebbero esposto il governo, inutilmente, in una battaglia da cui sarebbe potuta derivare una sconfitta politica fornendo alle opposizioni un obiettivo politico: quello di battere Giorgia Meloni. Non si può pretendere che una maggioranza si impegni in una competizione che non sente sua.

Dunque l’unico modo per difendere una legislazione riformista è l’astensione (cioè non ritirare le schede), che è il solo voto sensato. Mi fanno ridere le anime belle che vanno a votare No per fare testimonianza. Non è un caso che la campagna del Sì si è orientata sulla partecipazione al voto: il raggiungimento del quorum lavora per loro, mentre il suo fallimento è una rendita di posizione di cui gli oppositori dei referendum sono legittimati ad avvalersene. Lo hanno fatto tutti. Non si tratta di seguire un galateo elettorale che non esiste. La posta in gioco è troppo importante, e va al di là del merito. Ancora una volta tocca a tutti i democratici salvare la sinistra da sé stessa.

Autore
Formiche

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