Via da Matera, l’inarrestabile fuga dei giovani

  • Postato il 20 giugno 2025
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Il Quotidiano del Sud
Via da Matera, l’inarrestabile fuga dei giovani

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I giovani se ne vanno da Matera. E se ne vanno soprattutto i più preparati: nel 2023 i laureati tra i 25 e i 34 anni emigrati all’estero sono aumentati del 21,2 per cento

MATERA – I dati dell’Ufficio statistiche del Comune di Matera vengono raramente consultati. Al 31 dicembre scorso, dicono che la popolazione non è diminuita in senso assoluto, rimane più o meno stabile, sempre a quota 60 mila. Ma, nel dato finale, bisogna contare almeno 5 mila cittadini che provengono da ogni parte del mondo. Indicatore numerico che si presta a duplice lettura. La città è probabilmente ancora attrattiva. Per quanto, si scopre che non è un posto per giovani. Specialmente se si considera che un terzo della popolazione supera i 65 anni di età. Il tema, a livello di territorio lucano, non solo materano, dovrebbe essere in cima all’agenda politica, ma non ci è mai arrivato. Eppure è lì, evidente, urgente, drammatico: la Basilicata, tutto il Sud si sta svuotando.

Non è solo questione di piccoli paesi abbandonati, ma anche di città sempre più spente, con meno nascite, meno lavoro, meno futuro. Chi lo dice? Non certo la chiacchiera in voga nei vari bar dello sport che lacerano inutilmente la nostra comunità. Secondo l’Istat, tra dieci anni quasi il 90 per cento dei comuni delle aree interne del Mezzogiorno perderà costantemente popolazione. Nei centri più isolati il dato sale addirittura al 92,6%.

Intanto, i giovani se ne vanno da Matera. E se ne vanno soprattutto i più preparati: nel 2023 i laureati tra i 25 e i 34 anni emigrati all’estero sono aumentati del 21,2 per cento. E tra quanti sono andati via sono sempre meno quelli che tornano: solo 6.000 rientri, il 4,1 per cento in meno rispetto all’anno prima. Ho assistito, un anno fa, a un’iniziativa che vedeva protagonisti alcuni giovani materani che erano tornati o stavano pensando di rientrare. Si incontrarono nell’atrio del palazzo dell’Annunziata, nel cuore della piazza, ai piedi della Biblioteca provinciale di Matera. Invitato a intervenire sul tema, non ho potuto fare a meno di lodare i nobili intenti espressi a più voci, purtroppo, contrapposti a una realtà provinciale che si sta lentamente privando di quegli strumenti di base che servono per crescere insieme. Il rientro senza strumenti non è una condizione ideale. Del resto, il caso della Biblioteca Tommaso Stigliani, l’unica realtà di questo tipo di cui è dotata un’intera provincia, resta emblematico. A settembre il personale si ridurrà a nove addetti che, non per cattiva volontà, non possiede competenze specifiche nella gestione di un patrimonio librario di 400 mila volumi, soprattutto se si considera un particolare non trascurabile: già dal 2017 è andato in pensione l’ultimo bibliotecario, il timoniere, mai sostituito.

Intanto, si apprende che il governo ha approvato un Piano per le aree interne. Ovviamente, lo ha fatto nel bel mezzo di una stagione di tagli che colpiscono proprio i nostri territori. Si parla di 7,7 miliardi in meno per i Comuni, 3,5 miliardi tolti al Fondo perequativo infrastrutturale, e 1,7 miliardi tagliati alle strade provinciali. E poi, i tagli alla scuola: oltre 5.600 docenti in meno, più di 2.000 posti persi tra il personale amministrativo. Senza contare che la spesa sanitaria cala rispetto al Pil, quando in molte zone raggiungere un ospedale è già un’impresa. Dati per niente rassicuranti. Anzi, al contrario, con queste scelte si sta dicendo ai giovani che andarsene è la scelta giusta. Che qui non c’è più niente da fare. Che restare è inutile. Non è un messaggio esplicito, lo si afferma piuttosto col no al salario minimo, tagliando la sanità, accorpando le scuole, cancellando miliardi di investimenti pubblici. E continua ad aleggiare più insidiosa che mai la questione dell’autonomia differenziata, non certo andata in archivio, anzi, al solo parlarne si allarga ancora di più il divario Nord-Sud. Signori, si chiude!

Ma davvero possiamo accettare che l’unica risposta allo spopolamento sia chiudere i nostri paesi, la nostra storia? Non è già un messaggio devastante il solo pensarlo, qualcosa che suona come una resa totale? Il punto è che manca da decenni una vera programmazione per il Mezzogiorno, e nessuno si tiri indietro. Si continua a spingere verso la desertificazione, come se l’unico destino possibile per il Sud fosse quello di diventare una meta turistica, a tratti malinconica, tra rovine e nostalgia, buona solo per chi viene da fuori, al massimo un set cinematografico a buon mercato. Intanto, chi è nato qui viene subdolamente mandato via, cacciato. Senza chissà quale clamore, senza proteste. In un silenzio assordante.

Nel frattempo, è forse maturata un’altra visione per i giovani a Matera? Sono praticabili politiche serie, che non si limitino a piangere sulle sventure o a fare annunci a vuoto, ma che costruiscano alternative concrete? Politiche in grado di ridare fiducia ai giovani, pensate per sostenere chi vuole restare, chi vuole tornare, chi vuole vivere nei luoghi delle radici. Con strade e collegamenti degni di questo nome, ospedali non ridotti a poliambulatori, attivi centri di ricerca e culturali. Con diritti, non solo resistenza passiva ai dinosauri di turno, che intanto non mollano la presa?

Diciamo “no”, allora, all’eutanasia dei paesi. Sì, invece, a un nuovo modo di vivere e abitare il Sud e tutte le aree meridionali d’Italia. Matera può dire la sua, perché il diritto dei giovani a restare deve valere quanto quello a partire. Ultim’ora. I venti di guerra suggeriscono che un Paese indifeso non abbia chissà quale futuro. Così ripete preoccupata la voce di quanti auspicano un arruolamento di massa, minimo diecimila giovani, ma ne occorrerebbero almeno quarantamila. Il calo demografico senza precedenti registrato nel Belpaese indica due ostacoli insormontabili a questa visione da emergenza e paura continua. La prima è numerica, non si può obbligare un arruolamento di massa, la seconda è economica: chi paga chi? Di più. Non si può dire che sempre, ogni guerra sia “voluta” per risolvere le crisi economiche. Ma la storia, come evidenziano le scuole di pensiero liberale, mostra che in determinate condizioni – crisi profonda, polarizzazione sociale, concentrazione di potere – la guerra non è solo un rischio, ma talvolta una scelta sostenuta da chi detiene le leve economiche e politiche. Soprattutto quando ogni altra opzione – come una vera redistribuzione della ricchezza, o una riforma strutturale del sistema – viene considerata troppo costosa, troppo lenta, o semplicemente inaccettabile per chi comanda davvero.

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