Viaggio al termine della vita della scrittrice turca che amava Pavese
- Postato il 28 giugno 2025
- Di Il Foglio
- 3 Visualizzazioni

Viaggio al termine della vita della scrittrice turca che amava Pavese
Sugli altopiani di Simav, città turca dove nacque nel 1943, Tezer Õzlü da bambina si univa ai battitori di grano. “Guardavo ammirata i chicchi giallissimi. Allora i campi di grano erano il mio mare. Le mie città, i miei viali”. Ma, fin da piccola, sogna di fuggire, perché “l’infanzia è prigionia, l’infanzia è esilio” scrive in Viaggio al termine della vita del 1984, meritoriamente tradotto adesso da Giulia Ansaldo per Crocetti (155 pagine, 17 euro).
Fugge dall’infanzia e dalla sua terra, dove a 18 anni tenta anche il suicidio, viene salvata e chiusa in manicomio. Fugge e compone poesie, fugge e scrive romanzi autobiografici diventando un’autrice di culto nel suo paese. Il Viaggio al termine della vita è un pellegrinaggio e la meta sono i luoghi di Cesare Pavese, che Tezer ama dentro un forte processo di identificazione. Ma prima di arrivare a destinazione si perde un po’ per l’Europa, in treno, in autostop. Ha un marito (il secondo) lasciato da qualche parte perché “ho sempre considerato e continuerò a considerare i matrimoni duraturi istituzioni sbagliate dell’ordine sociale” e del resto afferma: “Vivo per cambiare le relazioni umane”. Si dà, lungo la strada, al primo venuto che le va a genio e che perde la testa per lei. In tanti perdono la testa per questa quarantenne bella e strana, dai lunghi capelli castani al vento, che ha fatto l’attrice di teatro e la traduttrice dal tedesco e scrive libri dai titoli eloquenti, Le fredde notti dell’infanzia, Tracce di un suicidio, La vita fuori dal tempo…
Nel suo vagabondare per l’Europa, ascolta Leonard Cohen come Beethoven, si perde a Praga sulle tracce di un altro scrittore molto amato, Franz Kafka, scende a Trieste alla ricerca di Italo Svevo e ne incontra la figlia ultraottantenne Letizia, fa l’amore come antidoto alla vita, per perdersi meglio nel corpo di un uomo. E poi finalmente è nelle Langhe, a Santo Stefano Belbo, dove è nato Pavese di cui cita continuamente i Diari, e dove conosce il Nuto de La luna e i falò e sale incredula sulla Fiat 126 del grande amico dello scrittore, al secolo Giuseppe Scaglione, detto Pinolo, falegname e clarinettista. E poi, a Torino, eccola all’Hotel Roma, nella stanza dove Pavese si tolse la vita e dove il giovane portiere d’albergo che la apre per lei, si innamora perdutamente di questa donna malinconica che lo abbandonerà presto, come abbandona tutti per stabilirsi in Svizzera dove morirà a soli 43 anni per un tumore al seno, ma avendo fatto in tempo a sposarsi di nuovo con un artista. Il memoir però si ferma all’Hotel Roma con un’ennesima citazione pavesiana: E la vita non è solo il vento, solo il cielo, solo le foglie e solo niente?
Pavese è stato un grande amore delle generazioni nate fra gli anni ’40-‘50, l’autore più studiato con Italo Calvino al liceo, almeno in Italia. Ma se Calvino lasciava un po’ freddi, in Pavese tanti studenti trovavano riflesse le loro angosce e il loro senso di inadeguatezza. Mi sembrava che oggi non fosse più così, finché non mi sono imbattuta - proprio mentre leggevo Õzlü - nel trentaquattrenne francese Pierre Adrian autore di un Hotel Roma tradotto per Atlantide da Maria Sole Iommi (160 pagine, 24 euro), che è ancora una volta un pellegrinaggio: dal Piemonte alla Calabria, dove Pavese fu mandato al confino durante il fascismo, non per eroismo ma per un equivoco amoroso dei suoi. Qui però il viaggio è a due, un giovane uomo e una giovane donna che nell’amore per lo scrittore delle Langhe scoprono e rafforzano il loro rapporto sentimentale. La chiusa, meno nichilista, è ancora una volta lasciata al grande piemontese che così risponde alla domanda: perché si scrive, per la posterità? No. Per l’oggi, non per l’eterno. E mi sembra l’eredità più adatta ai nostri giorni.