"Volevo essere Robin" di Pippo Ricci

  • Postato il 8 aprile 2025
  • Di Focus.it
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C'è chi sogna di essere Batman. Pippo Ricci no. Lui voleva essere Robin. Perché, diciamocelo, non tutti nascono per essere "il campione". Qualcuno nasce per fare il lavoro sporco, per credere nel 5% quando tutto sembra perduto, per ascoltare, mettersi in discussione, e tornare in palestra anche il giorno dopo essersi rotto, dentro e fuori. In Volevo essere Robin Ricci racconta la sua doppia vita di cestista e matematico (di cui ci parlò anche a Focus Live 2024) con un'onestà disarmante. Non troverete pagine gonfie d'epica sportiva, ma la cronaca autentica di chi ha dovuto «sbrigarsi a definire un nuovo schema di sopravvivenza», smarrito tra cuore pesante e autostima a terra; la storia di chi dice: «Col cavolo che rinuncio allo studio per fare un allenamento in più», e poi porta la tesi di laurea in matematica usando il basket per spiegare i... Pinch Points. Questa non è (solo) una biografia sportiva. È un manuale umano per chi sbaglia, cade e si rialza. Per chi si sente sempre Robin ma continua a costruire, giorno dopo giorno, il proprio valore. Con una lezione potente: «Nessuno si salva da solo». C'è dentro la fatica, l'Africa, la matematica, l'amore immaginato come un Pi greco, e l'ansia che – spoiler – è "solo una perdita di tempo". Ma soprattutto c'è l'idea che la vittoria sia un processo, che il talento conta ma il carattere pesa di più. Un libro che fa bene a chi ha un campo da gioco, un'aula o una vita da affrontare. E che, alla fine, ti fa venire voglia di essere un po' più Robin. Anche se non giochi a basket. Abbiamo scelto un estratto del libro che (con l'autorizzazione dell'editore) vi proponiamo qui sotto:. [...] I primi mesi alla Stella Azzurra sono uno schiaffo a mano aperta. Una gomitata nello stomaco a rimbalzo. Una stoppata presa in faccia. Ridimensionano ogni mia convinzione e mi costringono a mettere tutto in discussione. I nostri alloggi, posizionati accanto al campo da basket, mi ricordano ogni mattino, appena apro gli occhi, che la mia esistenza è sacrificata alla pallacanestro. Divido la camera con Mario e Pasquale e stiamo così stretti che a volte sembra di soffocare. L'unica distrazione concessa è il piccolo televisore che abbiamo nella sala comune, davanti a un divano a L, cinque posti. Ce lo spartiamo noi tre, più Antonio, Armando, Mario, Gianni, Simone, Bruno e gli altri ragazzi che dormono nelle stanze vicine. Siamo in venti e, ovviamente, la sera non ci stiamo mai tutti. Chi tardi arriva male alloggia, cazzi suoi. Imparo presto che qui alla Stella ci sono diverse regole, scritte e non, da rispettare: la mattina o vai a scuola o ti alleni, il cibo viene servito in mensa a mezzogiorno e se non ci sei, di nuovo, cazzi tuoi. Dopo pranzo ti alleni con la squadra, dalle quattro alle sette e mezzo. Lunedì, mercoledì e venerdì ti tocca la sessione pesi, e poi ti alleni, mentre martedì e giovedì ti devi sparare chilometri di corsa, e poi, di nuovo, ti alleni. La sera, dopo aver cenato di merda, puoi guardare un po' la tv, e questo è l'apice della tua distrazione giornaliera. La domenica pomeriggio, se proprio non vuoi fare allenamento individuale, ti è permesso un giro in città. A proposito: mai, per nessuna ragione, puoi valicare i confini della Stella Azzurra senza la misericordiosa concessione del tuo capo allenatore. Perciò vedi di tirare dritto e non farlo arrabbiare. Devo sbrigarmi a definire un nuovo schema di sopravvivenza, se non voglio uscire di testa. Ma la mia vita è così cambiata, che è come se avessi smarrito tutte le coordinate. Non so da che parte ricominciare. Il basket mi aiuterebbe a rompere finalmente il ghiaccio di queste prime, incerte, settimane. L'ho considerato sempre uno sport aggregante, in grado di compiere una magia potente, quella di facilitare – e accelerare – i rapporti umani. Quando giochi devi trovare un modo per parlarti, per capirti, e devi farlo alla svelta se non vuoi soccombere. Così, spesso basta un cenno d'intesa, una buona difesa, un assist, un cinque battuto al volo per diventare amici. Per sentirti parte del gruppo. Il fatto è che io, alla Stella Azzurra, ci sono arrivato in stampelle. Germano me le fa togliere dopo due settimane, ma allenarmi con la squadra è impensabile. Dopo scuola, Francesco Casadio si alterna con Lorenzo Ricci per portarmi a fare fisioterapia a Villa Stuart e quando torno in foresteria devo dedicarmi al lavoro individuale per rinforzare la caviglia. In palestra, intanto, gli altri attaccano e difendono il canestro allo sfinimento, parlano, ridono, litigano. Costruiscono aneddoti, una memoria condivisa. Io invece non vivo il campo, non vivo lo spogliatoio, non prendo parte a quei piccoli e grandi momenti di divertimento, tensione o semplice complicità, tipici della vita di ogni squadra. La scelta di frequentare il liceo scientifico Farnesina, invece che il Pascal come la stragrande maggioranza della Stella Azzurra, crea un'ulteriore distanza tra me e gli altri ragazzi. La mia scuola è lontana, per arrivarci devo prendere due autobus e perdo un sacco di tempo che loro trascorrono insieme. La sera, quando i miei compagni di stanza si piazzano sul divano, io resto in camera a studiare. È vero, a scuola mi sto prendendo delle belle soddisfazioni, viaggio a una media alta, ma qui dentro conta meno di zero. Il metro di giudizio della tua persona è quanto puoi essere utile alla Stella Azzurra. Non c'è posto per me, non ancora. Ho la sensazione di essere tagliato fuori. Come fai a trascorrere quasi tutto il giorno, tutti i giorni, insieme a ragazzi che non sanno nulla di te, e tu nulla di loro? Qui nessuno sa chi sono. E se nessuno sa chi sono, chi sono io? Una sera, in preda allo sconforto, chiamo papà.«Pa', non mi sento parte di questa cosa. Non sono dentro.» Arrendermi, però, non è nelle mie corde. Fallire mi spaventa. Inizio a stare in panchina durante gli allenamenti. Passo ore e ore a bordo campo, in piedi, a incoraggiare, applaudire, battere il tempo. Interpreto il ruolo che so fare meglio. Quello del sostenitore, il compagno che si mette a disposizione della squadra, nell'unico modo in cui le mie condizioni me lo permettono. Dentro di me sto urlando: Ehi, ci sono anch'io! Non dimenticatevi che ci sono anch'io. È massacrante, a livello psicologico. E, comunque, non è mai abbastanza. Una mattina, mi sveglio con il cuore pesante, l'autostima al tracollo. Sono malinconico come le canzoni che in questo periodo ascolto a ripetizione, sul mio mp3 shuffle color azzurro tristezza. Ho passato il pomeriggio precedente a fare il tifo, la sera in camera a studiare mentre sentivo le chiacchiere degli altri provenire dalla sala comune. Non ne posso più. [...].
Autore
Focus.it

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