Vorrei una Calabria in cui nessuno debba emigrare per curarsi
- Postato il 1 ottobre 2025
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Il Quotidiano del Sud
Vorrei una Calabria in cui nessuno debba emigrare per curarsi
Due anni e mezzo fa la mia vita ha incrociato un percorso che nessuno vorrebbe mai affrontare: la malattia. Una patologia importante che mi ha costretto a numerosi accertamenti invasivi, TAC, risonanze e controlli continui. La prima risposta del CUP di Cosenza è stata lapidaria: «Signora, la prima visita disponibile sarà tra 9 mesi, forse un anno». E mi sono chiesta: come può una persona malata aspettare così a lungo?
Quando hai una diagnosi sospesa nel vuoto, ogni giorno pesa come un macigno. Per necessità, come tanti, ho dovuto rivolgermi al privato. Ma questo significa affrontare spese altissime: una TAC o una risonanza può costare dai 200 ai 400 euro. In Calabria lo stipendio medio per un lavoratore privato si aggira intorno a 1.180 euro lordi al mese, nei casi migliori superando poco quella soglia. Se vivi con un simile salario, come fai a sostenere queste spese sanitarie, oltre ai bisogni quotidiani, alle bollette, al cibo?
È un dolore nel dolore: oltre alla malattia, la preoccupazione di non potersi permettere le cure. Con risultati non sempre riconosciuti dai medici fuori regione e soprattutto con la sensazione di vivere in un sistema che non ti accompagna, ma ti lascia solo. Un sistema che spesso obbliga il cittadino a chiedere favori, a fare telefonate, ad appoggiarsi alle conoscenze pur di ottenere un esame in tempi ragionevoli.
E allora mi domando: chi non ha amicizie, chi non ha una rete su cui contare, cosa fa? Attende, tra paura e sofferenza. La salute dovrebbe essere il diritto più sacro, non un privilegio per chi riesce a “trovare la strada”. Ho cercato di curarmi in Calabria, ma mi sono trovata davanti ospedali con carenze di personale, medici costretti a turni massacranti e persino a occuparsi di burocrazia. Ho incontrato medici stranieri arrivati per colmare i vuoti: persone rispettabili, che però spesso si trovano ad affrontare difficoltà linguistiche, difficoltà che per un anziano fragile diventano muri insormontabili.
Eppure si continua a dire che “la sanità calabrese è migliorata”. Allora guardiamo i numeri:
- Negli ultimi anni in Calabria sono stati chiusi 18 ospedali.
- La nostra regione è ultima in Italia per posti letto ospedalieri pubblici: 315 ogni 100mila abitanti.
- Mancano almeno 2.500 professionisti tra medici e infermieri e oltre 3.000 medici di famiglia.
Non sono opinioni, sono dati ufficiali.
E c’è un paradosso che fa ancora più male: i medici calabresi migliori io li ho incontrati… fuori. In altre regioni italiane, perfino all’estero. Professionisti di altissimo livello, che avrebbero potuto rendere la nostra sanità un fiore all’occhiello. Invece sono andati via, perché qui non trovano spazi, strutture, opportunità.
La domanda allora è semplice e bruciante: perché la Calabria non riesce a trattenere le sue eccellenze?
Perché si continuano ad annunciare cantieri, progetti, inaugurazioni che richiedono anni, mentre i cittadini hanno bisogno di cure oggi?
Non scrivo per polemica sterile, ma per amore della mia terra. Vorrei una Calabria in cui nessuno debba emigrare per curarsi. Una Calabria in cui gli ospedali siano realmente aperti, i medici messi nelle condizioni di lavorare, i cittadini liberi di esercitare un diritto senza sentirsi mendicanti.
Chi ha governato non deve limitarsi a ripetere che “va tutto bene”. Deve dimostrare, con i fatti, che la salute viene prima di tutto. Perché chi ama davvero questa terra non la usa come slogan: la serve con serietà e rispetto.
Io continuerò a raccontare, a chiedere, a pretendere. Perché la mia non è solo la storia di una paziente. È la voce di una cittadina pensante, presidente dell’associazione Fatto in Calabria, che non si rassegna a vedere la nostra regione trattata come una terra di serie B.
* “Cittadina pensante”
Presidente dell’associazione Fatto in Calabria
Il Quotidiano del Sud.
Vorrei una Calabria in cui nessuno debba emigrare per curarsi