Yossi Cohen svela i segreti del Mossad: nel suo libro anche la controversia sul Qatar

  • Postato il 27 settembre 2025
  • Di Panorama
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Un’autobiografia che è anche manifesto politico e riflessione strategica. Con The Sword of Freedom: Israel, Mossad, and the Secret War, uscito il 16 settembre per Harper Collins, Yossi Cohen – direttore del Mossad tra il 2016 e il 2021 – rompe il silenzio che tradizionalmente avvolge i capi dell’intelligence israeliana e porta il lettore dentro una delle agenzie più temute e rispettate del mondo.

Il volume, 288 pagine asciutte e dirette, si presenta come un memoir ma ambisce a molto di più: è una narrazione personale che intreccia ricordi operativi, riflessioni sulla sicurezza nazionale e un’analisi del conflitto mediorientale. Cohen sceglie di aprire il racconto con un evento destinato a segnare Israele: l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L’ex spymaster non nasconde la sua critica alle istituzioni militari e di intelligence, accusate di aver abbassato la guardia davanti a una minaccia che lui descrive come «sempre presente, mai sconfitta».

Il cuore del libro si concentra però sulle operazioni condotte durante la sua direzione. Tra queste, spicca il colpo del 2018 a Teheran: il furto dell’archivio nucleare iraniano. Cohen lo racconta come un’azione di audacia e precisione, pianificata nei minimi dettagli, che dimostrò al mondo l’abilità del Mossad e rivelò quanto fosse avanzato il programma atomico della Repubblica islamica. «Non era solo un’operazione di intelligence, era un messaggio politico e strategico», scrive, sottolineando che la sicurezza di Israele non è negoziabile.

Lo stile di Cohen riflette l’uomo: pragmatico, diretto, senza concessioni alla retorica. Non è un libro di letteratura, ma di sostanza. Le pagine mostrano la logica implacabile del mestiere di spia: anticipare le minacce, assumersi la responsabilità di decisioni che possono salvare o compromettere vite umane, agire in un contesto dove il fallimento non è contemplato. «La sicurezza si paga sempre, in fatica, in sacrifici, talvolta in sangue. L’alternativa è la sconfitta», osserva Cohen.

Ma accanto ai capitoli dedicati alle operazioni segrete, c’è un tema che aleggia come un’ombra sull’intera vicenda: il rapporto con il Qatar. Durante la sua direzione, Israele consentì a Doha di far arrivare a Gaza ingenti flussi finanziari, ufficialmente destinati a scopi civili. Cohen, in più occasioni, difese questa politica come «un male necessario», arrivando a definire la mediazione qatariota una sorta di garanzia di quiete. Registrazioni emerse in seguito lo mostrano mentre parla del Qatar come di «una benedizione» per la gestione della Striscia. In tempi più recenti, però, l’ex capo del Mossad ha preso le distanze, dichiarando di aver chiesto pubblicamente la fine di quei trasferimenti e accusando altri decisori politici di aver insistito per mantenerli. Questa oscillazione ha alimentato accuse di incoerenza e il sospetto che dietro la narrazione ci sia un calcolo politico. Non meno controverso il suo invito a non attaccare pubblicamente Doha, considerata ancora oggi un mediatore indispensabile nelle trattative per il rilascio degli ostaggi.

Le recensioni uscite sulla stampa internazionale hanno sottolineato i punti di forza del testo: la capacità di aprire uno squarcio su un mondo normalmente impenetrabile, la chiarezza con cui Cohen racconta i dilemmi morali che ogni operazione comporta, la tensione narrativa che trasforma la cronaca in un thriller politico. Ma non mancano i limiti. Come accade per tutti i memoir di intelligence, molti dettagli restano volutamente vaghi, coperti da segreto. Alcuni critici fanno notare che il libro sembra avere anche una finalità politica: costruire l’immagine pubblica di Cohen come potenziale leader, pronto a un futuro ruolo di governo. Un aspetto che colpisce è la cornice valoriale che accompagna le riflessioni. Cohen non nasconde la sua identità religiosa e culturale: la sua visione della sicurezza israeliana è radicata nella convinzione che lo Stato ebraico debba difendersi con determinazione assoluta, senza indulgere a visioni utopiche. Da qui la critica all’illusione di una pace rapida e alle concessioni fatte ai nemici. «La sopravvivenza di Israele non è oggetto di trattativa», insiste.

Il libro ha già sollevato discussioni. Per alcuni è un contributo prezioso alla comprensione del ruolo del Mossad nel XXI secolo; per altri è un testo che guarda al passato più che al futuro, con il rischio di rimanere intrappolato in una visione securitaria senza aperture a scenari di riconciliazione. Quel che è certo è che la sua uscita segna un evento raro: l’ex capo di un servizio segreto che decide di offrire la propria versione dei fatti, rivelando la mentalità che guida l’intelligence israeliana. The Sword of Freedom non è dunque solo un’autobiografia. È un messaggio lanciato al pubblico israeliano e internazionale: Israele vive in uno stato di guerra permanente e la difesa è l’unico linguaggio che conta. Con uno stile sobrio ma incisivo, Cohen consegna al lettore un avvertimento e, forse, una candidatura implicita a ruoli futuri. In ogni caso, il libro resta una testimonianza chiave per chi voglia comprendere la filosofia operativa e politica del Mossad, tra mito e realtà, con l’ombra lunga del Qatar a ricordare quanto la geopolitica sia fatta di compromessi spesso controversi.

Autore
Panorama

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