Zelensky cambia look ma non strategia: la guerra resta l’unico orizzonte
- Postato il 6 settembre 2025
- Di Panorama
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Il 18 agosto scorso, a Washington, si è messo il vestito buono. Anche se il suo stilista ci ha tenuto a sottolineare: il completo di Volodymyr Zelensky non era stato studiato per adeguarsi al dress code della Casa Bianca, bensì per il Giorno dell’indipendenza dell’Ucraina. Capito? Nemmeno fosse una Elly Schlein qualsiasi, il capo della resistenza di Kiev, l’uomo che l’Occidente ha celebrato come il «nuovo Churchill», ha un assistente che ne cura l’abbigliamento. Perché la guerra è pure questione di marketing.
Ma nell’ex attore, qualcosa è cambiato da quel disastroso 28 febbraio 2025, quando il Servitore del popolo – dal titolo della serie tv che lo rese famoso – aveva incontrato nello Studio ovale il presidente Usa, nonché ex presentatore di reality show. Anche quello era stato uno storico momento di tv verità: la lavata di capo di Donald Trump e JD Vance a Zelensky ha sollevato il velo sugli arcani del potere in diretta mondiale, costringendo i vertici del Paese invaso dai russi a un cambio di rotta.
Intanto, al di là della mise meno marziale e più rigorosa, il presidente ucraino ha abbandonato la tecnica fallimentare del presentarsi in America con i cahier de doléances. Ha aperto a nuove elezioni: una delle richieste che gli arrivavano da Oltreoceano, affinché distinguesse chiaramente la sua leadership da quella, autocratica ma pur vagliata dalla parvenza di consultazioni democratiche, di Vladimir Putin. Nei confronti del nemico numero uno, l’ex comico non si è limitato all’elenco delle rimostranze: lo zar ci bombarda, lo zar ci uccide, lo zar non si ferma, con lui non si può negoziare. A febbraio, The Donald lo aveva messo in guardia: se devo convincerlo a trattare, non posso additarlo pubblicamente come un criminale. Ed ecco il colpo di scena: Zelensky ha giurato di essere pronto a incontrare l’omologo, sia per un bilaterale sia per un trilaterale alla presenza del tycoon. Passando la palla a Mosca, affinché sveli l’eventuale bluff.
L’ucraino, nell’ultima occasione, si è fatto scortare dagli alleati europei: i «volenterosi» Emmanuel Macron (Francia) e Keir Starmer (Uk); il cancelliere tedesco, Friedrich Merz; la nostra Giorgia Meloni; il primo ministro finlandese, Alexander Stubb; il segretario Nato, Mark Rutte e l’evanescente Ursula von der Leyen, alla guida della commissione Ue. Tutti reduci, con diverse fortune (a Londra è andata meglio che a Bruxelles), da una calata di braghe al cospetto di Washington sui dazi. Tutti disponibili ad assicurare agli Stati Uniti – che di essere coinvolti nel pantano a Est non ne vogliono sapere – che si sobbarcheranno loro la difesa dell’Ucraina dopo il conflitto. Tutti, almeno a parole, entusiasti del lavoro del tycoon per portare Mad Vlad in Alaska a Ferragosto, provando a farlo ragionare. Tutti deferenti.
Fin qui, ciò che è avvenuto sul proscenio. E dietro le quinte? Cosa si muove? La verità è che, al di là dei sorrisi di circostanza e dei tributi verbali, Zelensky ha pochi motivi per stare sereno e tanti per continuare a essere preoccupatissimo dei disegni di Trump.
L’inquilino della Casa Bianca ha lasciato intendere di voler riconoscere de facto la sovranità della Russia sulle aree occupate. I dettagli si potranno limare: magari non tutto il Donbass, solo quello davvero conquistato (circa l’80 per cento). Per l’Ucraina, comunque, lo scenario postbellico non potrà che essere quello di un doloroso smembramento. Un prezzo altissimo, per l’uomo che ha imposto il sacrificio di decine di migliaia di giovani, promettendo la vittoria finale già nel 2023, ai tempi del fiasco della controffensiva. All’epoca, l’uomo in mimetica era riuscito a scaricare le responsabilità su un eroe nazionale, l’ex capo delle forze armate, Valery Zaluzny. Ora che la conduzione della trattativa è diventata un affare soltanto politico, sarà difficile non metterci la faccia. Bisognerà convincere i cittadini che, tutto sommato, è andata bene; che il Paese poteva collassare, sparire, finire completamente sotto il giogo di Putin; e che, data l’alternativa, sospendere fino a data da destinarsi la questione delle repubbliche indipendentiste e rinunciare all’ingresso nella Nato, specie in presenza di «solide garanzie di sicurezza», stile articolo 5 Nato, è un buon compromesso. Un ragionamento in cui c’è persino una parte di verità. Solo che ci si poteva arrivare con tre anni di anticipo e centinaia di migliaia di morti prima. E partendo da una posizione di forza, quando l’Armata russa fallì l’assedio a Kiev.
Come sapeva bene il massimo polemologo dell’Occidente, Carl von Clausewitz, la guerra è il dominio dell’incertezza: se le prime elezioni dopo il secondo conflitto mondiale furono una catastrofe per il vecchio Churchill, che la guerra l’aveva vinta, cosa potrebbero rivelarsi per quello nuovo, di Churchill, che la guerra l’ha persa? E cosa racconteranno i capi di Stato del Vecchio continente agli elettori, dopo aver intimato loro di scegliere tra la pace e il condizionatore? Potranno ricominciare a prendersela con Trump?
Zelensky teme a tal punto le urne che, secondo Daria Kaleniuk, direttrice del Centro di azione anticorruzione ucraino, la sua eminenza grigia, il fidato consigliere Andrii Yermak, gli avrebbe consigliato di «candidarsi per un altro mandato e organizzare le elezioni in modo che vinca sicuramente». Anche a costo di rinunciare all’ingresso nell’Ue – scintille si erano già viste per la legge che avrebbe svuotato l’autorità anticorruzione, ritirata in seguito alle proteste dell’Europa.
Sentendolo invocare ulteriori rappresaglie economiche contro Mosca, mentre esclude categoricamente la cessione di territori, qualcuno ha iniziato a coltivare un sospetto: quello del mite Zelensky, capace di archiviare la lite di sette mesi fa con The Donald, è buon viso a cattivo gioco. Cela una strategia concordata con gli europei per continuare a combattere. Fino all’ultimo ucraino, si capisce. Evitando così, da un lato, l’incognita della fine della legge marziale, del ritorno delle opposizioni e di nuove elezioni; dall’altro, l’imbarazzo di ammettere una sconfitta strategica.
La testata d’informazione Politico ha ipotizzato che il presidente ucraino e i suoi alleati abbiano puntato sulle lusinghe: blandire il tycoon, proporre il vertice con Putin, nella convinzione che sarà lo stesso zar a far saltare il banco, troppo ingolosito dalla prospettiva di avanzare sul campo mentre Trump si fa in quattro per arrivare a una quadra. A quel punto, il presidente Usa potrebbe venire convinto che lo zar lo ha preso in giro, che merita pesanti sanzioni, che si deve rinnovare il sostegno militare alla resistenza. Se il trumpismo di Zelensky fosse una farsa, saremmo dinanzi a una scommessa rischiosa. Washington ha urgenza di sbloccare l’impasse con Mosca pur di svincolarla dalla Cina, che agli occhi degli americani è la principale minaccia per il futuro. In più, l’America, a differenza di quanto accadde ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, non ha voglia di foraggiare l’Ucraina all’infinito. E se gli europei sono disponibili a sganciare quattrini – l’ultima tranche da 4 miliardi è stata erogata proprio in occasione dei 34 anni dell’indipendenza di Kiev – sul piano bellico l’aiuto statunitense è insostituibile. Senza i missili di Trump, Putin dilagherebbe. I proclami dei volenterosi sull’invio di truppe – ma solo a pace raggiunta! – si rivelerebbero per l’aria fritta che sono: basti pensare che, in Germania, ha spopolato il saggio dell’autore di podcast Ole Nyomen, noto per il motto «Meglio sotto occupazione che morto».
Può darsi che The Donald abbia fiutato qualcosa, perché, dopo pacche e incoraggiamenti, ha ripreso a sbeffeggiare Zelensky: è «il più grande venditore del mondo», ha detto, ma noi americani «non spendiamo più un soldo per l’Ucraina, noi trattiamo con la Nato», a cui Washington venderebbe gli equipaggiamenti da consegnare a Kiev. Trump ha gongolato: «Non stiamo più mandando armi, ora stiamo facendo soldi». E ha osservato: questo si è rivelato «un grande conflitto tra personalità». La cosa peggiore che quelle personalità potrebbero fare è provare a rubare la scena alla sua.