25 aprile 1945, la Liberazione lunga un mese: come si arrivò alla rivolta finale contro il nazifascismo

  • Postato il 24 aprile 2025
  • Politica
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il 25 aprile è lungo più o meno un mese, l’ultimo dei venti di Resistenza. E’ il tempo dell’insurrezione, della resa dei conti, della battaglia finale. Il primo passo formale porta la data del 29 marzo: il Cln nomina un “comitato insurrezionale”, ne fanno parte l’intellettuale Emilio Sereni per il Pci, il giornalista Leo Valiani per il Partito d’Azione, l’avvocato Sandro Pertini per il Psi; antifascisti della prima ora, perseguitati, confinati, esuli. Non è un caso che già il giorno dopo comandante e vice della struttura militare della Resistenza (il generale Raffaele Cadorna e Ferruccio Parri) siano a Caserta per incontrare il comando alleato: gli americani fino all’ultimo chiederanno ai partigiani di evitare insurrezioni e azioni autonome, ma mai come nell’ultimo mese saranno ignorati da tutti i leader della Resistenza. Il 4 aprile Cadorna, Parri e il comunista Luigi Longo inaugurano in una comunicazione alle formazioni partigiane l’espressione scolpita nel mito della lotta partigiana: “Arrendersi o perire”. “Oggi, subito: arrendersi o perire! – sarà ribadito nell’ultimatum del 19 – Domani sarà troppo tardi! Nessuno possa dire, sull’orlo della tomba, che non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima possibilità di salvezza”.

E’ la traduzione in carta timbrata di un momento drammatico: fuori dalla burocrazia, fuori dall’intesa diffidente tra Alleati e partigiani, si continua a combattere e si continua a morire fino all’ultimo giorno, e oltre. Per le rappresaglie tedesche, per le violenze fasciste, per le rivendicazioni e le vendette cresciute lungo una vita, per i bombardamenti dei liberatori. E’ anche per effetto delle bombe che – dopo mesi – gli angloamericani si smuovono dal pantano dalla Linea Gotica (tornano libere Massa, Carrara, Imola) e sgombrano la strada per la liberazione di Bologna. I fascisti e i nazisti, in ritirata, lasciano la loro scia di sangue con rastrellamenti, fucilazioni, eccidi, esecuzioni sommarie. Il 16 aprile è il giorno dell’ultima seduta del governo di Salò, la ridotta fascista diventata dependance del Terzo Reich: all’ordine del giorno c’è solo la discussione – disperata – su come salvare la pelle ai gerarchi e alle loro famiglie. Due giorni prima Alessandro Pavolini, l’irriducibile, aveva schiuso la sua ultima illusione: creare un’ultima difesa repubblichina in Valtellina. Non sa che l’intera valle è già salda nelle mani di Brigate Garibaldi e di Giustizia e Libertà.

Benito Mussolini si trasferisce nella prefettura di Milano, circondato dalla coda di spettri di cui consta il suo governo fantasma – è il 18 aprile – e intanto proseguono gli scioperi. A Genova, a Torino, a Sesto San Giovanni, a Milano: il 19 aprile i dipendenti della Borletti, che produce orologi, escono dallo stabilimento di via Washington e si dirigono in corteo verso piazza Duomo. I legionari della Ettore Muti – il cui nome sarà legato per sempre alla strage di piazzale Loreto del 1944, 15 prigionieri uccisi per rappresaglia e esposti come avvertimento – aprono il fuoco. Il prefetto fascista Mario Bassi – diligente coordinatore delle deportazioni degli ebrei – ordina l’arresto di chi si astiene dal lavoro. Sono gli ultimi rantoli di un regime in disfacimento.

La lunga battaglia di Bologna
Passa un giorno e il generale Frido Von Senger ordina la ritirata da Bologna dopo combattimenti durati 12 giorni e 12 notti. Sono passate da poco le 6 del 21 aprile e sulla Torre degli Asinelli sventola una bandiera della Polonia: sono state le truppe di Varsavia le prime a entrare in città. Dopo poco la popolazione saluta i carri armati americani e i partigiani dell’eroica Brigata Maiella, formazione repubblicana che ha liberato molti paesi dell’Abruzzo e delle Marche. Le donne bolognesi depongono fiori e foto sul muro esterno di Palazzo Accursio, la sede del Comune: lì erano stati fucilati molti antifascisti, un luogo che i mussoliniani avevano preso a chiamare beffardamente “punto di ristoro dei partigiani”. E’ sempre qui che trova la morte anche Salvatore Cavallaro, capo di gabinetto della questura: riconosciuto come torturatore dei tempi del regime appena caduto, viene additato, braccato, linciato, fucilato. Alla rivolta contro il fascismo non partecipa più solo la popolazione: sulla scena – con tempismo inevitabile – sta per fare irruzione anche la folla.

In quello stesso giorno, il 21 aprile, il Cln invia altre direttive alle formazioni partigiane: si spiega come attaccare i nemici, ma si sottolinea anche che le priorità sono il controllo delle città e la difesa delle fabbriche. Dopo 48 ore un altro comunicato del comando militare: “Intensificare l’azione per la battaglia decisiva: il nemico è in fuga, battuto, demoralizzato, non deve più far paura a nessuno”. Il senso è sempre meno operativo e sempre più orientato al morale dei partigiani, della popolazione che li aiuta e – per converso – dei fascisti. E’ finita, è il messaggio per tutti.

Genova, l’insurrezione “modello”
Genova è già pronta, lo è da mesi. Il piano insurrezionale è stilato nel dettaglio da ottobre. Il momento dell’assalto finale ai nazifascisti sembra imminente, ma è frenato – come altrove – dagli angloamericani. La situazione però sfugge di mano a coloro che vorrebbero un passaggio di consegne quasi “pacifico”. L’accordo tra Alleati e partigiani è che questi ultimi dovranno impedire una fuga ordinata dei nemici. Così quando mettono in moto i primi convogli di militari tedeschi e notabili repubblichini il Cln si riunisce in fretta e furia: è la sera del 23 aprile. Servirà tutta la notte e non si raggiungerà mai l’unanimità: far partire l’insurrezione oppure no? Ora o più tardi? Vince il sì, ma a maggioranza. Cominciano a essere appesi manifesti che ordinano di entrare in azione. In realtà a Ponente – dove si trovano le fabbriche – partigiani e operai hanno già cominciato da ore. I tedeschi hanno minato l’intero porto, diga foranea compresa, ma il generale Günther Meinhold ha annusato l’aria da tempo e da tempo ha un canale aperto con il Cln, con il delegato azionista Carmine Alfredo Romanzi (“Stefano” ): fornisce ai partigiani le mappe per bonificare tutto il bacino. La brigata femminile “Alice Noli” distribuisce 3mila braccialetti tricolore: inizia l’insurrezione e a farne parte è anche la cittadinanza. Quando nasce il 24 aprile sono già occupate stazioni e stabilimenti, da Sestri Ponente a Voltri, da Bolzaneto a Sampierdarena. Il campo principale è in porto, dove l’ufficiale di Marina Max Berninghaus ordina ai suoi uomini (compresi quelli della X Mas) la resistenza a oltranza. Cominciano a scendere i partigiani dalle montagne della Liguria, i nazifascisti si ritrovano soffocati da una manovra a tenaglia. Non è già più la guerra del generale Meinhold: chiama Romanzi, viene fatto uscire dal suo quartier generale dentro un’ambulanza che lo porta a Villa Migone, quartiere di San Fruttuoso, casa dell’arcivescovo Pietro Boetti. Qui arrivano i delegati del Cln genovese, il presidente è Remo Scappini, comunista, operaio di una fabbrica di fiammiferi. Alle 19,30 del 25 l’atto di resa è firmato. Berninghaus è nel suo delirio finale, non accetta la consegna delle armi, con altri reparti arriva a far “condannare a morte” Meinhold per alto tradimento: gli scontri proseguiranno almeno per un’altra mezza giornata. I partigiani fanno oltre 2mila prigionieri e – quando gli Alleati spuntano a Nervi – stanno sfilando in corteo. Il giorno dopo la stazione radio di Granarolo parla così: “Popolo genovese, esulta! L’insurrezione, la tua insurrezione, è vinta. Per la prima volta nella storia di questa guerra un corpo d’esercito si è arreso a un popolo”. La voce è del comandante Pittaluga, Paolo Emilio Taviani, futuro ministro della Repubblica.

Nelle stesse 48 ore anche a Modena e Reggio Emilia i combattenti della Resistenza hanno preso il governo delle città prima dell’arrivo degli angloamericani. Biella è libera, i fascisti provano a rifugiarsi a Vercelli.

Milano, la capitale della Resistenza
A Milano la Liberazione comincia il 24. E’ mezzogiorno e due staffette pedalano verso l’ospedale di Niguarda, quartiere operaio a Nord. Si chiamano Gina Galeotti Bianchi e Stellina Vecchio, nomi di battaglia Lia e Lalla: con la scusa di dover dare conforto ad alcuni pazienti stanno portando gli ordini che precedono l’insurrezione. Lia e Lalla, agganciate ai loro manubri, si trovano nel posto giusto nel momento sbagliato: proprio mentre un camion di tedeschi si rifiuta di fermarsi a un posto di blocco improvvisato dai partigiani: i nazisti sventagliano le mitragliette. Gina resta a terra: 32 anni, ragioniera, è incinta di 8 mesi perché si era innamorata di Bruno Bianchi, il marito, funzionario del Pci, rinchiuso a San Vittore. Lia è antifascista da quando aveva 16 anni, cioè da tutta la vita, è nella lotta di liberazione dai primi giorni, partecipa agli scioperi di Milano, ha fondato i Gruppi di Difesa della Donna. E’ stata interrogata e torturata 33 volte: in un caso è durato 47 ore. Muore mentre la compagna Stellina, Lalla, è soccorsa dalle donne che in un circolo vicino stanno preparando i bracciali tricolore, segno di appartenenza dell’insurrezione. L’uccisione di Lia è polvere da sparo pronta a incendiarsi. I partigiani bloccano una macchina di ufficiali tedeschi: uno reagisce e viene ucciso, gli altri sono fatti prigionieri. Viene fermato un camion carico di pietrame e si alzano le prime barricate, per esempio in via Ornato, una delle strade principali del quartiere. Una colonna di camion tedeschi prova a sfondare, nel frattempo i partigiani cominciano a sparare dall’interno dell’ospedale. Gli uomini della Brigata Garibaldi requisiscono la caserma del quartiere, catturano i repubblichini, fanno incetta di armi e munizioni: è sera e Niguarda è già libera. Poco più in là, vicino a viale Monza, partigiani comunisti si stanno sparando con una pattuglia di repubblichini. Il 25 aprile sta per arrivare.

(1 – continua)

Fonti
25 aprile 1945, Carlo Greppi, Laterza
Storia della Resistenza, Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, Laterza
Istituto per la storia dell’età contemporanea di Sesto San Giovanni
Genova 1943-1945, Elisabetta Tonizzi e Paolo Battifora, Rubbettino
Storia di un proclama: appuntamento dai salesiani, Francesco Motto, Las
Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea

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