Filocinesi alle corde. Il patto con Pechino non ha aiutato i fedeli
- Postato il 26 aprile 2025
- Di Panorama
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L’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi è probabilmente una delle eredità più pesanti che papa Francesco lascia al suo successore. Si tratta di un dossier che potrebbe rivelarsi addirittura decisivo in sede di conclave.
Sì, perché, alla prova dei fatti, questo accordo ha alla fine mostrato numerosi limiti. Fortemente caldeggiata dalla Compagnia di Gesù e dalla Comunità di Sant’Egidio, l’intesa è stata soprattutto promossa dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. I suoi fautori ne hanno sempre sottolineato la natura pastorale. Ma le polemiche non sono mancate.
Ebbene, per comprendere appieno la natura controversa di questo accordo, è utile esaminarlo da una prospettiva storica, mettendo in risalto anche la differenza sostanziale con cui Benedetto XVI e Francesco si sono rapportati alla questione cinese.
Era il maggio 2007, quando Benedetto XVI scrisse una lettera aperta ai cattolici cinesi: il che rappresentò, sì, una cauta apertura nei confronti di Pechino, ma furono al contempo fissati dei paletti. Il Papa escluse la nomina dei vescovi «senza mandato apostolico» e sottolineò come in Cina non mancassero «forze che influiscono negativamente sulla famiglia in vari modi». I rapporti sino-vaticani si raffreddarono significativamente nel luglio 2012, quando la Santa Sede denunciò che l’ordinazione, in Cina, del vescovo Giuseppe Yue Fusheng si era verificata «senza mandato pontificio e quindi illegittimamente». Il prelato incorse quindi nella scomunica latae sententiae e lo stesso direttore della Sala stampa vaticana di allora, padre Federico Lombardi, dovette ammettere che le relazioni tra la Santa Sede e la Repubblica popolare non stavano attraversando «un momento di dialogo del tutto costruttivo e sereno».
Papa Francesco venne eletto nel marzo 2013 e nell’ottobre dello stesso anno Parolin divenne segretario di Stato. Già a partire da agosto 2014, fu promosso un clima di disgelo nei confronti della Cina, che sarebbe culminato poi a settembre 2018, quando fu firmato l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi: accordo di cui, ancora oggi, non si conosce il testo. Parliamo di un’intesa che da allora è stata rinnovata tre volte: l’ultima a ottobre scorso per altri 4 anni. Non solo. Lo stesso papa Francesco aveva a più riprese espresso il desiderio di recarsi in visita in Cina: segno, questo, di come lo scorso pontificato puntasse molto sulla distensione con Pechino. Una distensione che, come già accennato, i suoi propugnatori hanno sempre giustificato con motivazioni di natura pastorale.
Il problema è che sono man mano emersi vari nodi. Innanzitutto, il regime cinese ha violato più volte i termini dell’accordo. A novembre 2022 – vale a dire appena un mese dopo il secondo rinnovo dell’intesa- la Santa Sede espresse «sorpresa e rammarico» per l’installazione di monsignor Giovanni Peng Weizhao come vescovo ausiliare di Jiangxi: una diocesi non riconosciuta da Roma. Era invece aprile 2023, quando il vescovo Joseph Shen Bin fu installato nella diocesi di Shanghai senza consultare la Santa Sede. Nel luglio successivo, Francesco ratificò la nomina a fatto ormai compiuto. Non solo. A maggio 2024, Shen Bin ha partecipato a un convegno in Vaticano in cui, alla presenza di Parolin, ha difeso lo stato della libertà religiosa nella Repubblica popolare, auspicando inoltre che la Chiesa cinese possa «seguire un percorso di sinicizzazione».
Il punto è che, nei fatti, la «sinicizzazione» altro non è se non il processo di indottrinamento ideologico a cui Xi Jinping ha ormai da anni sottoposto i cattolici cinesi: una linea a cui, già nell’agosto 2022, si erano esplicitamente inginocchiate sia l’Associazione patriottica cattolica cinese sia la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (due organizzazioni de facto sottoposte al controllo del Partito comunista cinese). Non solo. Lo scorso marzo, Asia News ha riferito che le autorità cinesi avevano arrestato il vescovo sotterraneo di Wenzhou, Pietro Shao Zhumin. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare una multa per aver celebrato messa il 27 dicembre davanti a 200 persone. Il prelato, che aveva già subito un arresto nel 2024, è finito nel mirino delle autorità per non aver accettato di aderire agli organi ecclesiastici controllati dal regime comunista. Ma non è finita qui. Secondo un rapporto di Open Door di quest’anno sulla liberà religiosa in Cina, «ancora una volta, le chiese non registrate sono state chiuse con la forza e i fedeli sono stati costretti a vivere in clandestinità. Le chiese registrate hanno dovuto affrontare restrizioni riguardo agli argomenti dei loro sermoni. Sono obbligate ad affiggere cartelli pro-comunisti e sono monitorate».
Insomma, non solo il regime comunista cinese ha violato più volte l’accordo sulla nomina dei vescovi, ma la situazione dei cattolici locali continua a rivelarsi drammatica. Inoltre, l’intesa avrà anche uno scopo pastorale, ma l’interlocutore resta comunque il governo di Pechino, che ne sta scaltramente approfittando per rafforzare la propria posizione politico-diplomatica agli occhi di ampie parti del Sud Globale (dall’Africa all’America Latina). Senza poi trascurare il punto interrogativo che aleggia sul futuro delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Taiwan. È quindi tutto da dimostrare che la maggioranza dei partecipanti al prossimo conclave auspicherà continuità rispetto alla politica di distensione nei confronti della Cina, portata avanti dal pontificato di Francesco. Il che rappresenta un’incognita non di poco conto per quei porporati che hanno scommesso molto sul disgelo con Pechino: da Parolin a Luis Antonio Tagle, passando per Stephen Chow e Matteo Zuppi.