Iran, Trump spacca il fronte conservatore: scontro con Tucker Carlson e tensioni nel mondo Maga
- Postato il 19 giugno 2025
- Di Panorama
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Il probabile coinvolgimento militare degli Stati Uniti in un conflitto con l’Iran ha gettato il mondo conservatore americano nel caos. Donald Trump ha definito “bizzarro” Tucker Carlson, dopo che quest’ultimo lo aveva accusato di “complicità” negli attacchi israeliani contro la Repubblica islamica. A sua volta, Carlson ha avuto un duro litigio con il senatore del Texas, Ted Cruz, che è un fautore della linea dura nei confronti degli ayatollah. Dall’altra parte, l’attivista trumpiana Laura Loomer ha attaccato l’ex volto di Fox News, tacciandolo di prendere soldi dal Qatar. A scendere in campo, è stata anche la deputata Marjorie Taylor Greene che, pur fedelissima dell’attuale presidente, si è stavolta schierata contro di lui a favore di Carlson. Non solo. Trump ha anche smentito platealmente quanto dichiarato a marzo sull’atomica iraniana dalla sua stessa direttrice dell’Intelligence nazionale, Tulsi Gabbard: una figura molto apprezzata da una parte della base Maga. D’altronde, lo stesso Trump, ieri, non ha potuto evitare di ammettere la frattura creatasi nel mondo conservatore statunitense. “Potrei avere alcune persone un po’ infelici ora, ma ce ne sono anche altre che sono felicissime”, ha detto, ribadendo poi che “l’Iran non può avere un’arma nucleare”.
Per capire le cause strutturali di questa spaccatura, bisogna tornare alle origini del trumpismo come fenomeno politico. Alla base dell’impalcatura ideologica dell’America First si è infatti sempre registrata una tensione latente tra due differenti concezioni di quelli che dovrebbero essere gli interessi degli Stati Uniti. La prima anima, quella originaria, ha una tendenza più isolazionista, che guarda soprattutto alla tutela della working class ed esprime scetticismo, se non ostilità, verso interventi militari all’estero e cambi di regime. La seconda anima è quella più “istituzionale”, di apparato: cresciuta man mano che il trumpismo andava rafforzandosi. In questa seconda accezione, America First vuol dire ricalibrare, sì, ma anche tutelare gli interessi imperiali degli Stati Uniti. Il che non significa appoggiare l’interventismo in salsa neocon né i regime change. Significa però ammettere che Washington non può permettersi l’isolazionismo e che, in determinati casi, gli atti di forza sono necessari sulla base del principio reaganiano della “peace through strength”. L’obiettivo, in quest’ottica, è quello di dosare deterrenza e coercizione, per tutelare gli interessi americani.
Ebbene, alleatesi strategicamente alle ultime elezioni presidenziali contro i dem, queste due anime si sono adesso scisse, a seguito della possibilità che Trump intervenga direttamente contro l’Iran. Se la prima è contraria a questo scenario, la seconda risulta favorevole. E attenzione: a queste due anime, ne va aggiunta una terza, rappresentata da quegli esponenti repubblicani di derivazione neocon che, un tempo anitrumpisti, sono andati, per così dire, a innestarsi nel trumpismo stesso. È allora utile cercare di individuare almeno alcuni dei volti che rappresentano queste correnti.
Tra gli isolazionisti spunta innanzitutto proprio Carlson: giornalista assai influente tra ampi strati della base Maga, già durante il primo mandato di Trump si era mostrato ostile a un approccio duro nei confronti di Teheran. Al suo fianco, oltre alla Greene, si è schierato anche Steve Bannon. Sulla stessa linea si è inoltre collocato il senatore Rand Paul: un libertarian contrario agli interventi militari all’estero. Secondo tutti costoro, l’attuale presidente americano starebbe tradendo il suo messaggio originario, ostile alle “guerre senza fine” e ai cambi di regime. Va detto che Trump non punterebbe per ora ad abbattere il governo iraniano, ma semmai a distruggere l’impianto nucleare di Fordow. È tuttavia chiaro che un intervento militare può avere degli esiti non sempre prevedibili. Dall’altra parte, a favore della linea “peace through strength” stanno figure come il segretario di Stato, Marco Rubio, il direttore della Cia, John Ratcliffe, e l’inviato per l’Ucraina, Keith Kellogg. Più vicino all’interventismo di marca neocon è invece il senatore Lindsey Graham, che giovedì ha esplicitamente auspicato un cambio di regime a Teheran. “È ora di chiudere il capitolo sull’ayatollah e sui suoi scagnozzi”, ha dichiarato.
L’aspetto interessante è che tutti i nomi che abbiamo citato sono alleati di Trump. Questo testimonia il caos esploso nel mondo conservatore statunitense. Il nodo riguarda il futuro dell’impero americano. L’ala isolazionista punta a un ripiegamento, mentre le altre due, pur con approcci differenti, mirano a tutelarlo: in tal senso, per loro, contenere attivamente o colpire l’Iran è un modo per mantenere l’influenza statunitense sul Medio Oriente, venendo incontro alle esigenze non solo di Israele ma anche dell’Arabia Saudita. Trump dovrà quindi impegnarsi per riuscire a tenere unite le varie anime del suo movimento. “Nonostante tutte le lotte intestine sulla purezza ideologica, il mondo Maga rimane un movimento costruito attorno a un solo uomo. Ecco perché Trump è fiducioso di poter piegare la base molto prima che si rompa”, ha riferito ieri Axios, aggiungendo che comunque l’universo repubblicano è attraversato da tensioni anche sulla questione migratoria.
Come che sia, il dossier iraniano rappresenta un rischio politico anche per il delfino di Trump, JD Vance. Storicamente su posizioni fredde per quanto riguarda gli interventi militari all’estero, negli scorsi giorni costui ha ammesso che l’inquilino della Casa Bianca “potrebbe decidere di dover intraprendere ulteriori azioni” contro il nucleare iraniano. Il vicepresidente si gioca molto in vista delle elezioni del 2028. E sulla questione mediorientale dovrà fare politicamente parecchia attenzione. Nel frattempo, però, il Partito democratico latita quasi totalmente dal dibattito pubblico. E l’assenza di un’opposizione degna di questo nome non facilita, di certo, il compattamento delle galassie conservatrici statunitensi.