Mafia turca e ‘Ndrangheta, l’alleanza criminale per il controllo dell’Italia

  • Postato il 28 aprile 2025
  • Di Panorama
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Dalla sua abitazione di Crotone e, prima ancora, dal quartier generale che aveva scelto a Rimini, Baris Boyun intesseva le sue relazioni con sodali, affiliati e referenti criminali sparsi tra il nostro Paese, la Turchia e l’Europa dell’Est. Varie Procure italiane lo indicano appunto come un boss della mafia turca e dalle autorità di Istanbul è ritenuto uno dei capi di un’organizzazione criminale responsabile di 19 tra omicidi e tentati omicidi. Inoltre, in patria gode di una certa notorietà, tanto da essere protagonista di video su Youtube: qui viene ripreso con i suoi affiliati in sontuosi banchetti, dove si esibiscono anche armi.

Attualmente è detenuto a Milano, in attesa di processo, mentre a Roma si decide per la sua estradizione. Boyun, è stato accertato, anche sottoposto a misure restrittive ha mantenuto il controllo delle attività illecite, impartendo ordini. A Crotone, però, muoversi senza essere notati è impossibile. Soprattutto per uno come lui. Le potenti famiglie di ’ndrangheta hanno ottimi informatori per le cose che contano. Pensare che il criminale turco abbia vissuto tra quelle quattro mura «vista mare» senza stringere relazioni, né avere interlocutori, alleanze o patti, è semplicemente fuori dalla realtà. Nel corposo fascicolo giudiziario su di lui, c’è una sola intercettazione a riguardo, ma è significativa: Boyun prima si vanta di gestire, attraverso i suoi uomini, «tutto il mercato tedesco», poi di poter «vendere anche in Svizzera» e infine afferma: «C’è un gruppo italiano e ci sono amici».

Queste parole sono rimaste sullo sfondo dell’inchiesta, nonostante alcune coincidenze. La Turchia, infatti, non è solo tappa nei traffici internazionali di stupefacenti, ma anche un rifugio strategico per i latitanti legati alla ’ndrangheta. Nel novembre 2022, per esempio, Luciano Camporesi narcotrafficante originario di Rimini (città in cui, proprio in quello stesso anno, Boyun viene bloccato per la prima volta in Italia), e che ha stretti legami con la criminalità calabrese, viene arrestato ad Antalya, sulla costa turca, dopo quattro anni di latitanza. Le indagini hanno svelato che Camporesi gestiva una nave, la Remus, utilizzata per il trasporto di carichi di droga.
Sempre nello Stato-cerniera tra Europa e Medio Oriente si muoveva un altro narcos: Bebè Roberto Pannunzi, alias Miguel, lo Zio, il Gozzo, il Signore, il Piccoletto, il Tintore, il Biondo, il Geometra, personaggio che riusciva a mettere insieme diversi cartelli colombiani e che stoccava la sua merce proprio in Turchia.

Non solo. In alcuni casi, tra i porti di Mersin e Adana, i trafficanti di esseri umani avrebbero fatto riferimento – nell’ambito di procedimenti penali – ad «amici italiani». E i principali sospettati sono alcuni emissari delle cosche ioniche della potente famiglia Iamonte di Melito di Porto Salvo. Nessuno, come si è detto, può agire in autonomia nei rapporti tra le organizzazioni criminali dei vari Paesi. Vale per chi vende armi, per chi traffica in stupefacenti, per chi cerca appoggi o nascondigli. E anche per i regolamenti di conti. Proprio come quello che avrebbe dovuto togliere di mezzo Boyun.
Nella notte del 18 marzo dell’anno scorso, infatti, qualcuno è andato a cercarlo. E non per parlargli. Ecco la ricostruzione. Alle tre del mattino, chiamata al 113: «Urla di donna e spari in via Vittorio Veneto». Quando la polizia arriva sul posto, trova bossoli sulle scale e un portone crivellato di colpi. Gli spari erano diretti contro l’appartamento di Boyun, detenuto domiciliare per detenzione illegale di un’arma, contestata dalla Squadra mobile di Milano. Colpi di pistola contro la porta prima, poi calci per sfondarla. Ma nessuno è riuscito a entrare. Poi, la moglie del boss si affaccia dall’ingresso di casa: vuole riattivare la corrente saltata. Vede due uomini a volto coperto. Rientra precipitosamente nell’appartamento. Quindi gli spari. I killer che cercano di entrare con la forza. E scappano solo quando la donna esce sul balcone a chiamare aiuto… Il giorno dopo Boyun viene portato via dall’abitazione. La polizia lo trasferisce in luogo più sicuro. Ma il messaggio per lui, intanto, è arrivato con chiarezza: i suoi nemici sanno dov’è. E intendono fargliela pagare. Microspie e intercettazioni ambientali hanno rivelato ciò che è accaduto dopo.

Boyun, scampato all’agguato, vuole vendetta. Indica i colpevoli: li chiama per nome: «Naci», «Ali Uzun» e «Burhanettin». Quest’ultimo viene identificato come Burhanettin Saral, membro di un clan rivale. Il boss turco, secondo le indagini, è deciso a organizzare una rappresaglia armata. Non in Italia. Sul suo territorio. Vuole colpire una fabbrica di alluminio a Tekirdag, vicino a Istanbul. Lì, sostiene, si trova «Burhanettin». E sa che il luogo è protetto da vetri antiproiettile e guardie armate. Dalle intercettazioni risulta che ordini ai suoi uomini di recuperare le armi. Ha dimostrato, insomma, di comandare anche quando è sotto lo stretto controllo dello Stato. «Gli stessi indagati», è scritto nella richiesta di arresto per lui e altre 19 persone nel maggio scorso (mentre solo un mese fa, in gran silenzio, la polizia turca ha arrestato a Istanbul 21 persone sospettate di fare parte del gruppo di Boyun), «del resto, hanno affermato che la loro permanenza in Italia è strettamente legata alla richiesta di protezione avanzata allo Stato italiano ». Prosegue il documento: «Proprio la capacità di strumentalizzare le istituzioni per sfuggire a mandati di cattura internazionali o alla semplice espulsione, vantando presunte persecuzioni da parte del governo turco, conferma che, se lasciati in libertà, possano definitivamente sottrarsi alla giustizia».

Le persecuzioni riguardano l’iniziale e presunta contiguità di Boyun con il partito curdo del Pkk. A un certo punto, si era messo in testa addirittura di superare la formazione per l’indipendenza del Kurdistan: «Fonderemo una nuova organizzazione iniziando una nuova rivoluzione», diceva a telefono senza farsi problemi. Il suo braccio destro, Ahmet Durmus, oltre ad aver ospitato in Italia «esponenti di organizzazioni criminali turche come Atiz Ismail detto Hamus», avrebbe «favorito e coordinato il traffico di immigrati dalla Turchia, prestando assistenza a clandestini e ricercati dalle autorità turche, assicurando loro i vari passaggi fino in Germania».

Questo è l’aspetto che gli inquirenti milanesi, coordinati dal pm Bruna Albertini, stanno cercando di approfondire. L’ipotesi è che ci sarebbero richieste di asilo a fronte di situazioni di persecuzione fittizie. Nelle conversazioni intercettate si parla spesso di «passaporti», «documenti» e costi per i trasporti. Durmus, inoltre, si vanta: «Se c’è qualcuno che vuole venire in Europa io posso aiutarlo anche per vie non legali». È solo l’ultimo degli ottimi affari del gruppo mafioso che diceva di voler fare la rivoluzione.

Autore
Panorama

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