Milano, nell’inchiesta sull’urbanistica il problema non sono i grattacieli

  • Postato il 25 luglio 2025
  • Di Panorama
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Un equivoco, ma forse sarebbe meglio dire un imbroglio, si aggira per redazioni e talk show a proposito dell’inchiesta che a Milano vede coinvolti architetti, funzionari e politici. L’equivoco fa credere a lettori e ascoltatori che l’indagine punti a fermare lo sviluppo della città, rendendo meno glamour e attrattiva la metropoli lombarda. Inoltre, si discute se sia giustificabile la crescita verticale della capitale economica italiana.

Ma, senza voler entrare nel merito del lavoro della Procura (a quello pensano i giudici, i quali sono chiamati a valutare le prove e non le chiacchiere di professori e commentatori), al centro di quella che è stata ribattezzata Palazzopoli non ci sono i grattacieli. Anche se qualche giornale se la prende con gli edifici a più piani che hanno tolto la luce agli appartamenti vicini, la questione non è quella dell’altezza di un edificio, ma del rispetto del Piano di governo del territorio, delle concessioni edilizie, delle volumetrie previste e, soprattutto, del conflitto di interessi fra tecnici che sono chiamati a decidere ma hanno anche rapporti d’affari e di consulenza con i costruttori sui cui progetti devono deliberare. È questo il tema, non la crescita della città. Basta leggere le ordinanze che in un anno sono state prodotte dai pm, per rendersi conto che non parlano mai di scelte urbanistiche. Ossia se sia giusto fare un condominio in più o in meno, oppure se sia accettabile che le nuove piazze di Milano siano tutte senza alberi nonostante Beppe Sala si definisca un sindaco verde. I magistrati – e lo dico da osservatore che spesso li critica – non si sono trasformati in paesaggisti e neppure pretendono di sostituirsi a Stefano Boeri, l’archistar del Bosco verticale. Semplicemente dicono che alcuni palazzi sono stati costruiti con le norme che consentono le ristrutturazioni quando invece si tratta di edifici ex novo, che non soltanto nulla hanno a che vedere con i garage su cui sono stati tirati su, ma che per volumetria e altezza appaiono come costruzioni che per essere realizzate hanno bisogno di una concessione edilizia. Tutto qui.

È una questione di legge. Puoi costruire delle torri al bordo di un parco senza avere un titolo per costruirle? La logica direbbe di no. Ma costruttori, funzionari e amministratori dal 2015 sostengono di sì. E la Procura, norme alla mano, contesta l’andazzo. E che il rito ambrosiano sia quantomeno discutibile, non per la qualità dei manufatti ma per le procedure seguite, lo dimostra il fatto che alcuni professionisti, intercettati dalla Procura, dicono che a Milano si è fatto qualche cosa che grida vendetta e che non ha paragoni in nessun’altra città italiana. Non solo: se fosse pacifico che palazzi superiori a 25 piani si possono realizzare senza alcuna concessione ma con una semplice comunicazione di inizio lavori, Beppe Sala non si sarebbe dato un gran da fare per ottenere dal Parlamento una legge di «interpretazione autentica» delle norme, provvedimento che, pur se chiamato Salva Milano, era in realtà un Salva Sala e soprattutto un grosso condono. La Procura non contesta lo sviluppo di Milano, il fatto che il capoluogo lombardo sia diventato più attraente e questo abbia avvicinato la città alle grandi capitali europee. L’indagine non si occupa dei prezzi delle case, cresciuti a dismisura fino a diventare proibitivi per il ceto medio-basso, o del numero di parchi e grattacieli. Non pensa che le torri zeppe di appartamenti che guardano il cielo siano alveari o ecomostri. Queste sono le stupidaggini che si sentono dire nei talk show da chi ha interesse a confondere le idee, ma non hanno nulla a che vedere con l’inchiesta. L’indagine segue l’ipotesi che i professionisti della Commissione paesaggio, una sorta di camera di compensazione fra tecnici e costruttori, abbiano fatto dei grandi regali ai gruppi immobiliari, consentendo ciò che non doveva essere concesso. Se vendi un palazzo di proprietà pubblica che ha una destinazione terziaria e poi consenti che sia trasformata in abitazioni è ovvio che il costruttore guadagna di più, perché i valori immobiliari degli uffici sono in calo e quelli residenziali in aumento. Ma il pubblico, cioè il Comune, che cosa guadagna in tutto ciò? Se permetti una ristrutturazione con la Scia invece di esigere che l’edificio ottenga una regolare concessione edilizia, fai un altro regalo all’investitore, ma gli oneri di urbanizzazione non pagati vanno a danno della collettività, che avrà meno servizi e più tasse.

Il punto è questo. Lo sviluppo, la modernità, i grattacieli che si «vorrebbero fermare», oltre che un grande equivoco, sono un paravento, che si usa per non far capire al pubblico il nocciolo del problema. Del resto, Porta nuova e Citylife, ossia la parte più moderna di Milano, sono state progettate e costruite quando c’erano delle giunte di centrodestra (Albertini e Moratti) e non ci furono né toghe rosse né toghe nere a fermarle: perché erano in regola con le norme. I palazzi Unicredit, Generali e Allianz, che svettano nel cielo del capoluogo lombardo, sono la prova che si può fare una metropoli internazionale, affidandosi ad architetti di grido, senza essere bloccati. Basta rispettare la legge e, soprattutto, pagare gli oneri di urbanizzazione. Se poi si vuol costruire appartamenti a prezzi calmierati (i cosiddetti Ers), al posto di scrivere numeri a casaccio, o annunciare, come ha fatto Beppe Sala anche dopo aver respinto l’idea di dimettersi, piani straordinari da attuarsi in pochi mesi, è sufficiente usare i soldi degli oneri di urbanizzazione. Tra mancati aggiornamenti dei parametri e vari aggiramenti delle norme, gli esperti hanno calcolato una cifra vicina ai 2 miliardi di euro persi. Quante case popolari si fanno con 2 miliardi? Altro che fermare Milano: per quel che mi riguarda è ora di suonare la sveglia.

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Panorama

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