Mostra del Cinema di Venezia, un florilegio di premi sbiadito, pallido e sottotono

  • Postato il 7 settembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Un film oggi non lo si nega a nessuno”, spiega Franco Maresco in Un film fatto per Bene, ovviamente fuori da ogni possibile premio a Venezia 2025. Giusto perché a questo giro Maresco non ci ha messo la mafia e non c’è Belluscone, cartoline pieghevoli affinché i giurati impegnati piovuti al Lido capiscano (perBene), e infatti i giurati non ci hanno capito un tubo già dopo cinque minuti.

Da qui la frase – di un intellettuale che vuole rimanere anonimo -: “Anche un premio oggi non lo si nega a nessuno”. Lapidaria e perfetta considerazione sul verdetto veneziano dell’82esima edizione targata Barbera/Buttafuoco. Non tanto per il Leone d’Oro, oggettivamente meritato a Father, mother, sister, brother, summa, condensa, spirito profondo di un cinema indipendente come quello di Jim Jarmusch che ha viaggiato parallelo al mainstream per quarant’anni, spesso tentandone vanamente un vezzoso duplicato (e l’avevamo messo giustamente da parte), qui tornato ad una straordinaria e universale semplicità formale. “Oh, shit!” è stata la prima frase del regista newyorchese dal palco della sala Grande con il Leone in mano. Forse rivolta a tutto quello che era accaduto prima.

Un florilegio di premi sbiadito, pallido e sottotono. Del resto un presidente di giuria – qui Alexander Payne (che quando ha voluto “esagerare” ha girato un brodetto sciapo come Downsizing) – invece di un altro, ma anche un giurato piuttosto che un altro (pensate a Maura Delpero) può elevare film mediocri a imperdibili e viceversa nel tempo di un amen. È il classico testacoda di un meccanismo competitivo che si infila nel tunnel delle paturnie, testardaggini, idiosincrasie di chi offre l’ultima parola. Vano quindi è stato sperare che un Bugonia di Yorgos Lanthimos, un A house of dynamite di Kathryn Bigelow, ma anche solo un Silent Friend (che mica è Lynch) di Ildiko Enyedi potessero ambire anche a minima considerazione leonina.

Un po’ come nella scena di Caro diario dove Nanni Moretti insegue il critico (Carlo Mazzacurati, dio lo abbia in gloria) che esaltava Henry pioggia di sangue. Solo che oggi, nell’epoca in cui un film viene concesso a tutti, un Henry o un Bugonia, o una Bigelow che sbertuccia un simil Obama (Idris Elba), diventano ossigeno, sopravvivenza, in mezzo ad una selva di non cinema. A partire da quel The voice of Hind Rajab (Gran premio della giuria) che, a differenza, per dire, di Una battaglia di Algeri, dopo l’affanno politico quotidiano attorno al genocidio compiuto a Gaza, verrà presto dimenticato per lasciare posto alla cronaca da cui prende spunto (“ah sai, c’è un film su quella tragedia!”).

Sull’opportunità o meno di usare le reali registrazioni della bimba uccisa dagli israeliani, lasciamo che il dibattito ancora una volta infuri senza di noi. Scaltro Barbera a metterlo in Concorso, altrettanto furbetta la decisione di farlo arrivare “secondo”. Ma è tra le righe del secondo terzo piano che il Palmares piange. Farsi sorprendere dalla regia (?) di The smashing machine di Benny Safdie o dalla poetica di Gianfranco Rosi in Sotto le nuvole, come dall’interpretazione di Xin Zhilei in The sun rises on us all, mostra tutta la maldestra difesa della lettura limitante di ciò che si è visto in giuria. Sic transit gloria mundi.

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Il Fatto Quotidiano

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