Perché il Gp di Monte Carlo ha ancora senso

  • Postato il 24 maggio 2025
  • Di Il Foglio
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Perché il Gp di Monte Carlo ha ancora senso

Ogni volta che la Formula 1 torna a Monte Carlo, rispunta la stessa domanda: ha ancora senso correre a 300 all’ora tra hotel extralusso, ristoranti stellati, elegantissime boutique e yacht da favola ancorati alla banchina? Le monoposto si sono allargate e allungate così tanto che ci sono punti lungo i 3.337 metri del percorso dove due auto affiancate non possono passare, tanto che per evitare di trasformare la gara in una lunga processione si è deciso da quest’anno di rendere obbligatori due cambi gomme… Eppure guardi negli occhi i piloti e capisci che loro al Gran premio di Monaco non rinuncerebbero mai e non solo perché in molti hanno preso residenza nel Principato. Come Jannik Sinner non lo hanno fatto solo per motivi fiscali, ma perché a Monte Carlo li lasciano vivere. Possono allenarsi, uscire a pranzo e a cena, addirittura andare a fare la spesa. Senza stress da selfie. Almeno senza quello che patirebbero in qualsiasi altra città di un certo livello. In più ci sono il sole, il mare e poi c’è lei… La pista dei sogni di ogni pilota. Vincere il Gran premio di Monaco fa storia a parte, non solo perché con la 500 Miglia di Indianapolis e la 24 di Le Mans costituisce la “Triple Crown” del motorsport. Peccato solo che la gara più lenta e quella più veloce ormai da anni finiscano nella stessa domenica del calendario.

 

                           

 

“Tutti i piloti, se potessero scegliere una gara da vincere, vorrebbero Monte Carlo. Perché è la più bella, la più ambita, la più colorata, la più conosciuta e quella dove il pilota forse conta di più", conferma Jarno Trulli che nel 2004, 21 anni fa, è stato l’ultimo italiano a vincere nel Principato. Prima di lui, nel 1982, lo aveva vinto a sorpresa Riccardo Patrese che non se ne se rese neppure conto subito. “Quando ho tagliato il traguardo era incavolato nero perché pensavo di aver perduto una grande occasione, invece Pironi, De Cesaris e Daly che mi avevamo passato non erano arrivati in fondo… quando i commissari mi indicarono di andare a parcheggiare la mia Brabham sotto il podio, allora ho capito”. Poi venne il ballo con la Principessa Grace che fece ingelosire la sua fidanzata dell’epoca, prontamente lasciata qualche giorno dopo. Anche Riccardo non scambierebbe quella vittoria con altre.

Un successo a Monte Carlo è qualcosa che splende di luce propria anche negli albi d’oro più ricchi. Jarno e Riccardo sono stati gli unici italiani a vincere il Gran premio da quando è una gara di Formula 1, mentre prima che nascesse il Mondiale, a Monaco avevano già vinto Nuvolari, Varzi, Fagioli, Farina, Marzotto, insomma il meglio di quegli anni gloriosi, quando si correva senza barriere e finire in acqua al porto era un fuori programma abbastanza frequente, come capitò ad Alberto Ascari esattamente 70 anni fa in quella che fu la sua ultima apparizione, quattro giorni prima della misteriosa tragedia di Monza.

Il Gran premio di Monaco è una specie di romanzo cominciato alla fine degli anni Venti e sopravvissuto più di cent’anni. Già il primo vincitore, con una Bugatti Tipo 39 verde nel 1929, aveva una storia particolare: William Grover-Williams non era solo un pilota, è stato infatti anche un agente segreto britannico, catturato dai tedeschi e giustiziato nel campo di Sachsenhausen. Una specie di James Bond prima di Fleming. L’ultimo vincitore è invece stato il primo monegasco a brindare sul circuito di casa: Charles Leclerc un anno fa spezzò la maledizione che sembrava perseguitarlo sulla pista di casa, quella dove gli capitava di passare con lo scuolabus da bambino. In mezzo c’è di tutto, con un albo d’oro dove i plurivincitori sono le leggende di questo sport: Senna (6), Graham Hill  e Schumacher (5), Prost (4), Moss, Stewart, Hamilton e Rosberg (3). Ayrton è il signore di questa pista. A Monaco ha dipinto degli autentici capolavori come il giro in qualifica del 1988 che rimane l’emblema del suo strapotere con 1”427 di vantaggio sul compagno di squadra Prost che guidava la stessa McLaren. Quello viene considerato ancora oggi il giro perfetto, anche se poi, meno di 24 ore dopo, Ayrton combinò uno dei suoi guai peggiori andando a schiantarsi alla curva del Portier quando stava umiliando tutti e aveva ormai un vantaggio incolmabile. Ma Ayrton era così. Non sapeva risparmiarsi e qualche volta gli veniva la tentazione di umiliare gli avversari, soprattutto se gli stavano sulle scatole come Prost.

Il Gran premio di Monaco hanno tentato di imitarlo a Miami, ad Abu Dhabi a Las Vegas. Hanno costruito piste che si affacciano su porti veri come negli Emirati o finti come in Florida, ma non riusciranno mai a riprodurre lo spirito di Monaco con le sue curve dai nome entrati nella testa degli appassionati. Santa Devota, Massenet, Casino, Mirabeau, Loews (prima Vecchia Stazione, poi Fairmont), Portier, Tabaccaio, Piscine, Rascasse, Anthony Noghes. “La cosa più bella di tutte è che ci permettono ancora di correre qui”, disse una volta Lewis Hamilton che qui ha ballato tre volte. La leggenda racconta che alle Piscine i piloti passano così vicini al guardrail che non ci starebbe neppure un fiammifero messo in orizzontale, non  in verticale. Leggenda che gli slow motion in 4K degli ultimi anni hanno documemtato. I piloti quasi si appoggiano ai bordi come se stessero correndo in una pista da bob. Qualcuno ogni tanto esagera e il sogno si spezza: ripetere per 78 giri quei passaggi al millimetro è qualcosa che anche l’Intelligenza artificiale potrebbe avere difficoltà a realizzare, anche se ormai tutto è reso più semplice dal cambio al volante e le immagini di piloti che concludevano la gara con la mano sanguinante per le cambiate fanno parte della storia.

Il vero spettacolo del weekend sono però le qualifiche con la pole che nel 45,71 per cento delle occasioni ha deciso il vincitore anche se c’è chi come Olivier Panis ha vinto scattando dalla 14esima posizione. È nel giro in qualifica che i piloti si lanciano tra i guard-rail senza un domani. Ayrton raccontava di provare delle sensazioni mistiche. “Nel 1984 ero già in pole, ma un giro dopo l’altro andavo sempre più veloce. Ad un certo punto mi sono reso conto che non stavo guidando l’auto consapevolmente, ma d’istinto, mi trovavo in una dimensione diversa, l’intero circuito era diventato un tunnel”. Lauda era molto più colorito, ma rendeva bene l’idea: “Vincere a Monaco dipende dalle dimensioni delle palle e della testa del pilota più che altrove. Non c’è nessun altro circuito in cui ci sia questa relazione tra la possibilità di schiantarsi e quella di conquistare la pole. La linea è sottilissima e la sfida enorme”. Ai piloti potete togliere tutto, ma non l’adrenalina che regala un giro in qualifica a Monte Carlo. Forse l’unico per cui pagherebbero per correre invece di essere pagati.

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Il Foglio

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