Remigrazione, il grande ritorno: da idea di estrema destra a politica condivisa in Europa
- Postato il 13 ottobre 2025
- Di Panorama
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«Voglio che facciamo tutto il possibile per far sì che il maggior numero di persone possa tornare nelle proprie terre d’origine».
Benché socialdemocratico, e quindi di sinistra, il neo ministro dell’Immigrazione danese, Rasmus Stoklund, sembra avere le idee chiare sulla questione. Tecnicamente, ciò che ha in mente Stoklund si chiama «remigrazione». Ma il danese non può chiamarla così. In fondo, per quanto abbia fama da duro, è pur sempre un progressista.
E per i progressisti la remigrazione è un vero spauracchio. Basti leggere la terrificante definizione che ne dà Wikipedia in inglese, che parla di una «proposta di estrema destra per la pulizia etnica attraverso la deportazione di massa di immigrati non bianchi».
In Germania, dove Alternative für Deutschland ne ha fatto una bandiera, è stata eletta Unwort des Jahres del 2023, ovvero «non-parola dell’anno», secondo un’iniziativa vagamente orwelliana di un gruppo di linguisti che, periodicamente, mette all’indice un termine ritenuto intrinsecamente malvagio. Eppure, malgrado questa campagna terrorizzante, il concetto si fa largo, anche in ambienti insospettabili. Non c’è praticamente governo, in Europa, anche fra gli esecutivi progressisti, che non sia giunto alla conclusione che il modello di «convivenza» imposto sin qui sia stato fallimentare. E che mettere mano a tali storture sia impossibile se non si allevia la pressione della massa critica straniera sulle società europee.
Chi invece non ha paura delle parole è il generale Roberto Vannacci, europarlamentare della Lega, che durante il suo intervento durante l’ultimo raduno di Pontida ha scandito dal palco, forte e chiaro: «Re-mi-gra-zio-ne», suscitando gli entusiasmi della folla.
Altri esponenti del Carroccio, come l’europarlamentare Isabella Tovaglieri, sono arrivati sul pratone insieme ad altri militanti, cantando: «La remigrazione salva la nazione».
In Francia, invece, già nel 2022 l’allora candidato di Reconquête alle presidenziali, lo scrittore Éric Zemmour, aveva addirittura annunciato un ministero ad essa dedicato in caso di vittoria elettorale, per espellere 100 mila persone l’anno. Poi, come è noto, Zemmour non ha vinto, ma la sua idea comunque non dispiaceva ai francesi: secondo un sondaggio Ifop condotto nel marzo 2022, il 66 per cento degli intervistati considerava questa politica un obiettivo desiderabile.
Nel frattempo, le iniziative si moltiplicano. A maggio il Remigration summit, che portava in Lombardia vari esponenti del mondo identitario europeo per discutere della questione, è diventato un caso nazionale.
Poche settimane fa, invece, a Grosseto, presso la festa nazionale di CasaPound Italia, un insieme di sigle identitarie italiane ha annunciato una raccolta firme in tutta Italia per portare in Parlamento una proposta di legge ad hoc.
Striscioni che inneggiano a questa iniziativa sono apparsi in varie città. Insomma, la remigrazione si fa strada: a cavallo tra destra movimentista e destra istituzionale, ma anche, più sottilmente, a cavallo tra destra e sinistra. Abbiamo già citato gli obiettivi malcelati (ma chiarissimi) dei socialdemocratici danesi. Ma anche il governo laburista di Keir Starmer ha appena annunciato strette analoghe, dopo aver studiato con interesse il modello Albania di Giorgia Meloni. E pure la geografia ideologica dell’elettorato si dimostra più complessa del previsto.
Nel già citato sondaggio Ifop realizzato in Francia nel 2022, la ripartizione degli intervistati per vicinanza ai partiti dà qualche sorpresa. Non stupisce certamente il fatto che l’80 per cento degli elettori lepenisti, il 97 per cento degli zemmouriani e l’84 dei votanti per i Républicains siano favorevoli alla remigrazione. Ma che dire del 60 per cento dei macroniani, del 52 per cento dei socialisti, persino del 40 per cento dei simpatizzanti per l’estrema sinistra de La France insoumise?
Che il tema goda di consenso diffuso lo dimostra anche il clamoroso successo del libro manifesto sul fenomeno: Remigrazione. Una proposta, dell’austriaco Martin Sellner, qualche mese fa balzato improvvisamente in testa alle classifiche di Amazon in Germania, grazie soprattutto al passaparola. Un po’ un caso Mondo al contrario in salsa teutonica, insomma.
Descritto come un Mein Kampf 2.0, il testo di Sellner (appena tradotto in italiano per Passaggio al bosco) è in realtà uno studio denso di dati e informazioni, argomentato con ragionevolezza e buon senso. Riguardo alla situazione degli stranieri non assimilati, ma che hanno passaporto europeo, cardine di una delle obiezioni più frequenti alla ricollocazione, Sellner per esempio scrive: «Una politica migratoria alternativa non può proporre di trattare arbitrariamente i cittadini in modo iniquo. In nessun caso sarà possibile revocare la cittadinanza sulla sola base della cultura, della religione o dell’etnia. Non ci devono essere cittadini di serie B». Che fare, allora? La posizione di chi ha doppia nazionalità è più facilmente risolvibile.
Negli altri casi, «devono essere adottate misure strutturali e a lungo termine per esercitare pressione sugli immigrati, spingendoli così all’assimilazione o al rimpatrio.
Queste misure, ovviamente, non devono violare né la dignità umana né il principio di uguaglianza: non vanno mai fondate su caratteristiche arbitrarie o etniche, ma sempre su criteri economici e sociali, prevedendo l’assimilazione come alternativa alla remigrazione».
La propaganda di chi vuole ridurre il fenomeno a una forma feroce di persecuzione etnica ha quindi il fiato corto. Giova ricordare che già secondo le normative vigenti, una quota importante della presenza immigrata in Italia non avrebbe alcun titolo per stare qui: secondo le stime più recenti, in Italia ci sarebbero circa 321 mila stranieri senza permesso di soggiorno valido.
Contro le espulsioni e i rimpatri si è ovviamente mobilitata la parte politicizzata della magistratura, rendendoli di fatto quasi impossibili. Ma l’impianto legislativo in vigore contempla già fenomeni limitati di remigrazione. Esistono anche vari fondi italiani ed europei che favoriscono il ritorno volontario degli immigrati nelle loro terre, come il Fondo asilo, migrazione e integrazione, uno dei principali strumenti finanziari dell’Ue per l’immigrazione, che finanzia, tra le altre cose, proprio progetti di rimpatrio volontario assistito e reintegrazione. In Italia abbiamo i progetti Rva&R (Rimpatrio volontario assistito con reintegrazione) promossi dal ministero dell’Interno.
Lo stesso Sellner, nel suo libro, scrive che «la mia proposta di remigrazione non costituisce una novità assoluta, bensì solo un miglioramento e un rafforzamento di ciò che già esiste».
Che questo approccio non debba avere un volto persecutorio e vendicativo lo sostiene del resto anche uno dei creatori della formula. Parliamo del francese Laurent Ozon, studioso di ecologia che una decina di anni fa lanciò in Francia un Mouvement pour la Remigration.
All’epoca, ha raccontato in una intervista al quotidiano La Verità, «abbiamo rintracciato le élite politiche dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sensibili a questo tema e disposte a impegnarsi nel dibattito. Abbiamo organizzato incontri pubblici e riservati con personalità politiche in Marocco, Tunisia e Algeria per discutere della questione». In Africa, del resto, non mancano statisti ostili all’esodo dei propri giovani verso l’Europa, né movimenti «africanisti» che potrebbero essere alleati degli identitari europei.
Quanto ai mezzi con cui attuare i rimpatri, Ozon spiegava: «Non ci sarà una politica di remigrazione semplicistica e generalizzata, ma politiche personalizzate per ogni Paese di origine. Ci saranno leggi sulla doppia nazionalità, sui condannati, sugli incentivi allo sviluppo e alla ricollocazione accompagnata, sui partenariati strategici volti a fare del mare nostrum un’area di scambio e cooperazione che rispetti i nostri interessi reciproci. […] Possiamo trovare soluzioni insieme. L’anti-islamismo o l’approccio iper securitario non risolveranno questi problemi. Per il momento, possiamo ancora risolvere la maggior parte di questi problemi in 30-40 anni. Ma se non agiamo nei prossimi 5-7, ci vorranno secoli per riprenderci, se mai ci riprenderemo del tutto».