A cinquant’anni da Amici miei, penso al cinico disincanto di Monicelli
- Postato il 15 agosto 2025
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di Rosamaria Fumarola
Mario Monicelli il cinico. Non so quante volte pensando al regista di Amici miei, la celeberrima pellicola che oggi compie cinquant’anni, me lo sono immaginato così, come un uomo per il quale niente di ciò che gli altri dicevano poteva cambiare la condizione umana. Era quel genere di individuo per cui non vi è parola che possa cambiare lo stato delle cose, da cui nessuna speranza può levarsi, nemmeno leggera come una piuma. In tutti i suoi capolavori è infatti parso convivere con la disillusione come certe coppie da separate in casa: non si sopportano ma per qualche motivo accettano di essere costrette a rimanere sotto lo stesso tetto.
Nella sua convivenza obbligata era però riuscito ad imporre una terza presenza: il set cinematografico, dove l’assurdo e il surreale avevano spazio e trovavano voce muta nelle labbra piegate in un sorriso. Ho sempre pensato a quel sorriso come una visita consentita alle suore di clausura: fuori contesto, incapace di sollevare dalla solitudine, eppure caritatevole. Sì, l’ironia nell’arte di Monicelli è caritatevole. È come il piatto di pasta alla mensa dei mendicanti, che non ti fa morire di fame ma non per questo fa di te un essere umano meno povero. Proprio quel terzo ospite, il cinema, gli ha consentito di non avere con la disillusione un rapporto sempre diretto.
Un esempio ne fu il funerale di Ugo Tognazzi, durante il quale Monicelli disse a Pontecorvo: “Ma non eri morto tu? E allora chi sta nella bara?”. Di fianco qualcuno lo guardò con disappunto, come chi non avesse capito cosa fosse la morte e la guardasse come un fatto lontano. Invece Monicelli la guardava sempre e da vicino e un funerale diventava l’occasione da non perdere per condividerla e così allontanarla, in questo mondo rovesciato in cui un lutto è perenne e bisogna creare una frattura, un’eccezione, per fare in modo che quei cappotti, quelle stoffe, carceri di cui siamo sempre prigionieri, sentano almeno il rumore di una risata e che siamo pur vivi (qualunque cosa significhi) anche senza averlo scelto.
A proposito però di quello stesso disincanto, guardando immagini più recenti, da non più giovane, mi è parso di cogliere lo sguardo felice di un nonno, che di cinico appunto non ha più niente e questo mi fa venire in mente ciò che una volta un’amica mi disse e cioè che tutti gli uomini, anche quelli più cinici o burberi, diventando vecchi acquistano loro malgrado una dolcezza prima insospettabile. Dev’essere accaduta anche a Monicelli la stessa cosa, sebbene il regista abbia dimostrato di non tollerare la vecchiaia, lasciando così intravedere, qualcuno direbbe, una sorta di peccato di hybris.
Molti hanno speso parole importanti riguardo il gesto con cui pose fine alla sua vita. Il regista forse avrebbe pensato che le spendevano per il Monicelli famoso, come se essere stato celebre gli dovesse garantire un quid pluris di diritto all’eternità rispetto a tutti gli altri esseri umani ed a cui ovviamente non sembrava avere mai ambíto, ma al diritto di por termine alla propria vita di uomo evidentemente sì, se fosse diventata, come poi di fatto accadde, miserevole al punto tale da negargli le prerogative minime dell’umana dignità.
A differenza della maggior parte di noi, che preferisce affidarsi a ciò che non vede e pensarsi in luoghi in cui immaginare qualunque cosa possibile, Monicelli è vissuto credendo solo a ciò che vedeva. A lui un investimento di pindarica fantasia è stato negato dalla sorte e perciò ha resistito con ciò che aveva, perché ognuno vive stretto in mura spesse che ad altri possono sembrare sottili come ali di farfalla. In fondo anche lui ha fatto ciò che ha potuto. Come tutti.
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