Basta parlare di guerra davanti al genocidio di Gaza: è ora di un ultimatum militare a Israele
- Postato il 22 agosto 2025
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di Davide Gatto
L’esperienza più significativa che noi elaboriamo del mondo è mediata dal linguaggio: parole che definiscono le cose, legami sintattici che le mettono in relazione. Sono di conseguenza ben radicate nel linguaggio anche le nostre azioni, persino quelle più istintive: insistere a definire “guerra” i massacri di Gaza comporta necessariamente una sorta di accettazione delle vittime civili e delle distruzioni che – si sa – sono effetti collaterali di qualunque conflitto.
Il linguaggio, che reca sempre ben impresse le impronte di chi detiene il potere, disegna nella mente di chi lo usa reti concettuali che possono essere vere e proprie gabbie: è il dogma del pacifismo che impedisce oggi di pensare a soluzioni al genocidio dei palestinesi che non siano le solite sterili esternazioni, benché sempre più larghe, all’insegna dell’indignazione e della protesta formale.
In tempi in cui le coscienze non erano ancora invischiate nella melassa pacifista, invece, ebbero carattere volontario e popolare le Brigate internazionali nella guerra di Spagna, la nostra Resistenza e i movimenti di liberazione coloniale. Fu anche grazie a loro se venne definito quel diritto internazionale che riconosce l’autodeterminazione di ogni popolo (ma che Israele e gli Stati Uniti negano ancora oggi ai palestinesi).
Uno dei più importanti teorici della decolonizzazione, Frantz Fanon, dopo aver concluso che la violenza altro non era che “l’intuizione che hanno le masse colonizzate che la loro liberazione deve farsi, e non può farsi, se non con la forza”, osservava acutamente che la borghesia colonialista, spaventata della reazione violenta degli sfruttati, aveva introdotto “una nuova nozione che è, a rigor di termini, una creazione della situazione coloniale: la nonviolenza”.
Il verbo della nonviolenza e del pacifismo segna dunque una specie di limite invalicabile che impedisce agli oppressi di combattere ad armi pari con i loro oppressori, di rispondere con la forza e con la violenza alla loro violenza, consentendo così al manovratore di condurre il mondo a suo proprio ed esclusivo vantaggio senza essere più disturbato.
È anche per questo che nella guerra vera che si sta combattendo sulla pelle dei palestinesi tra chi giustamente sostiene i principi e i valori del diritto internazionale e chi al contrario è animato da fanatismo nazionalistico (America first) o addirittura religioso ed etnocratico (Israele), la parte giusta, lungamente addomesticata al linguaggio della pace, non sa schierare sul terreno altro che la sua retorica vagamente paternalistica.
È necessario dunque innanzitutto liberare le parole e l’immaginario dai significati angusti, fuorvianti, e sempre abusivi in cui le forze dell’arbitrio e dell’oppressione li hanno confinati: una guerra nella guerra, come dimostra la lunga lotta per restituire alla parola “genocidio” l’intero dominio della sua applicabilità.
Gli stati della parte giusta, inoltre, dovranno una buona volta risolversi a lanciare congiuntamente un vero e proprio ultimatum militare a Israele perché rientri nell’alveo del diritto internazionale violato fin dalla Risoluzione Onu del 1947 che definiva i confini del futuro stato di Palestina, pena una dichiarazione di guerra in piena regola.
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