C’è uno spot anti-caccia che scatena le polemiche: “Chi lo promuove fa business con allevamenti intensivi e petfood”
- Postato il 26 novembre 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Niente giustifica la caccia”. Si intitola così la campagna di comunicazione che Fondazione Capellino ha avviato da qualche settimana – corredata da una petizione – per chiedere che venga fermata la riforma della legge sulla tutela della fauna selvatica e sul prelievo venatorio (157/92) voluta dal ministro Francesco Lollobrigida e dal centrodestra unito. E dunque spot (al momento sono due, apparsi sulle reti nazionali), ma anche sondaggi, dibattiti pubblici e – non ultimo – attività di lobbying, dichiarata, nei confronti dei parlamentari italiani. Insomma, come si vede, un’ampia strategia, che si pone in antitesi con ciò che, dall’altra parte della “barricata”, fa da anni e con successo Fondazione Una, il think tank dei cacciatori.
Fin qui tutto legittimo. E, nei contenuti, meritorio, dal momento che come scritto da ilFattoQuotidiano.it il ddl Malan (e gli emendamenti del centrodestra) liberalizza la caccia, costituendo un pericolo per la fauna selvatica, la biodiversità e l’incolumità delle persone. Il problema è che le associazioni venatorie – e Fondazione Una stessa – hanno puntato il dito contro il business su cui si basa Fondazione Capellino. Fondazione Capellino è proprietaria al 100% di Almo Nature, famosa azienda che si occupa di petfood. L’accusa, dunque, riguarda il cortocircuito etico: “Attaccano l’attività venatoria ma poi macellano gli animali“. Da quanto appreso da ilFatto.it, e confermato dalla Fondazione stessa, la filiera della produzione di carne per cani e gatti di cui si serve Almo Nature è la medesima di altre grandi aziende dello stesso settore. Si tratta, in buona sostanza, di allevamenti intensivi – come spiegato dalla stessa Fondazione – di cui è difficile conoscere il livello di benessere degli animali. “Con una precisazione – fa sapere l’azienda – Almo Nature si affida alla filiera della carne destinata all’uomo, dunque non aumenta il numero di animali uccisi per il petfood“. Di quali animali parliamo? Polli, maiali, manzi, tacchini, tonni e, seppur in misura minore (5% del totale), cinghiali. Questi ultimi provenienti, secondo Federcaccia, da “scarti di attività venatoria”. Con, complessivamente, il 56% della carne che arriva da Paesi extra-Ue.
Da qualche settimana tra la principale associazione venatoria italiana, supportata da Fondazione Una, e Fondazione Capellino è in corso una battaglia di dossier e contro-dossier. In pratica, vicendevoli accuse. I cacciatori chiedono, per esempio, quanti animali uccisi vengano utilizzati da Almo Nature ogni anno o “quali sono gli standard sanitari riconosciuti per petfood di provenienza extra-Ue, come la Thailandia?”. Il presidente Pier Giovanni Capellino ha risposto in parte alle critiche, sottolineando che la campagna contro la caccia non ha l’obiettivo “di fare soldi” o marketing, dal momento che, per statuto, la Fondazione ha deciso di reinvestire i proventi di Almo Nature – al netto di stipendi e costi vari – in progetti di tutela della biodiversità (per esempio, il progetto Yellowstone to Yukon o quello di Villa Fortuna) e “in favore di dipendenti e lavoratori lungo tutta la nostra filiera”.
Nel 2018, in un’intervista, Capellino aveva dichiarato che mettendo in piedi la Fondazione avrebbe creato “uno strumento economico a disposizione degli animali, della biodiversità e di coloro che condividono l’idea che sia necessario un nuovo patto degli umani con tutte le altre vite”. Ma per i detrattori non è sufficiente: “È paradossale che un’azienda che produce alimenti che si basano sull’utilizzo intensivo e industriale di proteine animali fomenti i consumatori contro la caccia quando, in casa propria, fa business sugli animali”. Qui la riposta dell’azienda data a ilFatto.it: “Migliorare il sistema dall’interno è una strada possibile, soprattutto se si riesce ad essere etici e sostenibili e il modello della Reintegration Economy punta a questo. Ci sono altre strade possibili? Se ci fossero e se venissero proposte si valuterebbero certamente”. E ancora: “Il rischio di scelte più estreme può portare a fallire a lungo termine perché l’offerta al pubblico lieviterebbe e il petfood costerebbe 4-5 volte tanto. Meglio migliorare operando dall’interno, accettando in parte la contraddizione ma impegnandosi per fare la differenza”. E poiché Fondazione Capellino promette di lanciare altre battaglie, qui siamo soltanto alla prima puntata.
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