Charlie Kirk, la violenza va condannata ma bisogna resistere alla santificazione automatica

  • Postato il 11 settembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Simone Millimaggi

La notizia della morte di Charlie Kirk, ucciso da un colpo d’arma da fuoco durante un comizio alla Utah Valley University, ha scosso l’America. Qualsiasi vita stroncata dalla violenza è una tragedia profonda, un fallimento del tessuto civile che dovrebbe proteggere il dibattito, anche il più acceso, senza mai temere per l’incolumità dei suoi partecipanti. Il primo dovere, dinanzi a un evento così efferato, è il lutto e la solidarietà per la vittima, la sua famiglia e la sua comunità.

Tuttavia, esiste un secondo dovere, più complesso e spesso scomodo, che una società matura non può eludere: il dovere di resistere alla santificazione automatica e alla strumentalizzazione politica della morte. La scomparsa di una persona non cancella magicamente il suo percorso, le sue idee, il suo operato o le controversie che lo hanno accompagnato in vita. La morte conferisce dignità alla fine, non un’assoluzione retroattiva alla storia.

Charlie Kirk, 31 anni, non era semplicemente un attivista. Ma una tra le figure più influenti del movimento conservatore moderno. Co-fondatore di Turning Point Usa, aveva costruito un’organizzazione potentissima, con un fatturato da decine di milioni di dollari e una presenza in oltre 850 college. Era un alleato stretto dell’ex Presidente Trump e un autore di bestseller. La sua retorica, amata dai suoi sostenitori, era da altri percepita come divisiva e polarizzante. Questo non è un giudizio, ma un dato di fatto del dibattito politico contemporaneo.

Proprio qui risiede il cuore della questione filosofica e civica che questo omicidio ci impone di affrontare. La reazione del Presidente Trump, che in un video ha reso omaggio a Kirk accusando la “retorica della sinistra radicale” di essere “direttamente responsabile per il terrorismo”, rappresenta la quintessenza di quella strumentalizzazione che offusca la verità più che cercarla. Il ragionamento di Trump, se così può essere definito, opera una pericolosa inversione di causalità e una volgarizzazione del concetto di responsabilità. Affermare che la critica politica, per quanto aspra e a volte eccessiva, sia la causa diretta di un atto di violenza individuale e criminale, significa svuotare l’autore del gesto di ogni sua responsabilità morale e personale. Significa derubricare un atto criminale a mera conseguenza meccanica, assolvendo l’assassino dalla colpa piena del suo gesto e addossandola a un’entità vaga e nemica: “la sinistra”.

È un sofisma tossico che mira a chiudere qualsiasi spazio di critica legittima. Se chi critica un esponente politico viene poi ritenuto “corresponsabile” se il medesimo viene attaccato, allora la critica stessa viene criminalizzata. È la logica dell’“o con noi o contro di noi” portata all’estremo, dove “contro di noi” diventa non solo un’opinione divergente, ma un atto quasi terroristico.

Il dovere di una società libera è opporsi a questa deriva con fermezza. Si può e si deve condannare la violenza con la massima veemenza, riconoscendo la tragedia umana nella morte di Kirk, senza per questo dover accettare una narrazione che trasforma la vittima in un martire incontestabile e usa il suo sangue per mettere a tacere gli avversari.

Santificare indiscriminatamente i morti è un insulto alla complessità della vita e alla intelligenza dei vivi. Ogni persona è un insieme di luci e ombre, di azioni costruttive e controversie. Ricordare un individuo nella sua interezza, onorando il dolore della sua perdita ma senza negare la realtà del suo impatto sul mondo, è l’unico modo per avere una memoria autentica e non manipolata.

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