Cinema, attivismo e Amazzonia: così il documentario di Richard Ladkani diventa uno strumento di tutela ambientale
- Postato il 29 agosto 2025
- Lifestyle
- Di Forbes Italia
- 3 Visualizzazioni

Il suo lavoro è la sua anima, la sua passione, ma anche il suo impegno, a cui dedica tutto se stesso, rischiando addirittura la propria vita. Richard Ladkani, pluripremiato regista e cinematografo, è nato a Beirut, in Libano, e cresciuto a Baden, vicino a Vienna, in Austria. A diciotto anni è andato a Parigi per fare un apprendistato in fotografia e ha passato diversi anni viaggiando in Sud America e Asia come fotogiornalista freelance.
Ha deciso di studiare cinematografia al Maine Media Workshops a Rockport e si è trasferito subito dopo a New York, per intraprendere una carriera da regista. I documentari di Ladkani sono un viaggio avventuroso, pieno di emozioni, colpi di scena, con il ritmo di un thriller, con storie di personaggi e di eroi reali, della vita di tutti i giorni, che si dipanano a poco a poco, inseguendo la narrazione. Tra questi ci sono The Ivory Game, Sea of Shadows e Yanuni, presentato nel gala di chiusura del Tribeca Film Festival a New York, tutti e tre prodotti insieme a Leonardo DiCaprio e capolavori sia cinematografici che di grande attivismo per le giuste cause in cui entrambi credono.
Leonardo DiCaprio, da attore ad attivista
DiCaprio ha introdotto la premiere di Yanuni con un toccante discorso di apertura, enfatizzando la necessità di azione per salvare il pianeta e la foresta amazzonica, come l’impegno delle donne indigene e, in particolare, della protagonista, Juma Xipaia, disposta a fronteggiare qualsiasi pericolo per i suoi valori (qui il suo discorso su Facebook). L’attore è fin da ragazzino un attivista a favore della protezione ambientale, degli animali e un sostenitore dei diritti degli indigeni. Adesso ha co-fondato Re:wild, oltre a essere attivo in diverse altre associazioni ambientaliste, tra cui Earth Alliance con Laurene Powell Jobs (ex moglie di Steve Jobs).
Inoltre ha, di recente, prodotto il film Killers of the Flower Moon, dopo essere venuto a conoscenza degli omicidi sistematici degli Osage, nel 1920, per appropriarsi dei loro diritti sul petrolio, mentre recitava il ruolo del capo dell’Fbi J. Edgar Hoover nell’omonimo film di Clint Eastwood. Al momento è impegnato in Nine Little Indians, che racconta degli abusi avvenuti in un collegio statunitense sui bambini nativi americani, specialmente di nove sorelle Charbonneau e dei loro compagni di scuola, e ha raccolto oltre un milione di dollari per il documentario We Are Guardians sulla protezione della foresta amazzonica, oltre ad aver realizzato una serie sul leader dei Dakota, Toro Seduto. Ma quello che si scopre da Yanuni, che lui e il regista Richard Ladkani hanno tenuto a evidenziare, è che sono proprio le donne la voce più forte nella tutela ambientale amazzonica.
Juma Xipaia, la voce indigena che sfida le multinazionali per difendere l’Amazzonia
Juma aveva solo tredici anni quando ha deciso che doveva proteggere il popolo indigeno Xipaya dalle multinazionali che stavano devastando le terre del Brasile con l’estrazione mineraria e lo sfruttamento degli alberi, compromettendo non solo la natura, ma la sopravvivenza delle comunità locali, che vivevano da generazioni qui, nel rispetto ambientale e in modo sostenibile. Non ebbe paura di denunciare pubblicamente questi minatori e taglialegna, armati pesantemente e disposti ad uccidere pur di raggiungere il loro scopo. Del resto, molti ambientalisti sono stati assassinati in Brasile e lei, che tuttora riceve regolarmente minacce di morte, ha rischiato spesso la vita, costretta a vivere nascosta e lontana dai suoi figli per mesi. A ventiquattro anni, quando era studentessa in medicina, è stata eletta leader dal suo popolo e ha fondato lo Juma Institute. Non ha temuto a evidenziare come le multinazionali che operano in Amazzonia provochino, oltre danni ambientali, perfino danni sulla dieta dei nativi, con malattie cardiache, diabete e un aumento del cancro.
Dal 10 al 21 novembre 2025 ci sarà l’Indigenous Peoples Summit in Amazzonia, in congiunzione con il Cop30 a Belém, in Brasile. Questa conferenza sul cambiamento climatico dell’Onu avrà luogo nel cuore dell’Amazzonia e vuole rafforzare l’Accordo di Parigi e la cooperazione internazionale sul cambiamento climatico, oltre che presentare un Global Pact per proteggere l’80% dell’Amazzonia entro la fine del 2025. Ladkani ci ha raccontato la loro avventura e il loro impegno, come i prossimi progetti futuri.
Come ha deciso di realizzare Yanuni?
Avevamo appena finito di girare Sea of Shadows, che aveva anche uno scopo ambientalista, perché avevamo seguito il lavoro di investigatori in incognito, ambientalisti e scienziati, giornalisti e membri della marina messicana nel disperato sforzo di salvare dall’estinzione la vaquita, la balena più piccola della Terra, contrastando i cartelli messicani e la mafia cinese. Questi stanno distruggendo l’habitat degli oceani, con la loro attività criminale e il brutale tentativo di catturare la vescica natatoria del pesce totoaba, considerato come la ‘cocaina del mare’. Avevo appena finito questo progetto, era l’estate del 2019, e vidi l’Amazzonia bruciare. Mi resi conto che volevo raccontare una storia sugli indigeni che lottavano per la protezione della loro terra. DiCaprio era fin dal principio coinvolto, perché avevamo realizzato già due documentari insieme, e mi chiese cosa potevamo fare dopo. Era da tempo che entrambi stavamo pensando di trovare una storia importante da raccontare.
Quando avete conosciuto Juma Xipaia?
Ho cominciato a contattarla e a conoscere Juma tramite Skype. Io e DiCaprio l’abbiamo poi incontrata durante il summit climatico Cop26, a novembre 2021, ma Juma si stava nascondendo per proteggere la sua vita e temevamo di porre troppa attenzione su di lei. Era anche difficile raggiungerla e coinvincerla a partecipare a questo documentario. Abbiamo deciso di coinvolgerla attivamente, rendendola produttrice. Juma si è fidata di me, mi ha invitato a filmare lei, i suoi figli, la sua famiglia e la sua comunità, così che potessi cogliere i momenti più personali della sua vita, oltre che il suo impegno. Volevo essere certo che lei avesse il controllo e che non prendessi io il sopravvento sulla sua storia, anche se mi ha lasciato completa libertà sulla parte creativa. In un paio di mesi ho imparato bene il portoghese, per poter comunicare meglio con lei e, per i cinque anni in cui abbiamo filmato, ho tentato di avere un team piccolissimo, per non disturbare la sua famiglia. Eravamo solo io e il mio secondo cinematografo, Fabio Nascimento, a filmare, perfino da una finestra o da un armadio.
Juma ha ottenuto la nomina storica di primo Segretario per i diritti indigeni del Brasile sotto la presidenza del presidente Lula. Al suo fianco, nella sua lotta, ha suo marito Hugo Loss, che è anche il capo delle Operazioni Speciali dell’Ibama, l’agenzia brasiliana per la protezione ambientale. Avete girato addirittura durante le sue operazioni segrete.
Mentre Juma è attiva sul fronte politico, Hugo dirige operazioni pericolose per smantellare i campi minerari illegali nelle profondità dell’Amazzonia, spesso sotto minaccia armata. Quando Juma, che allora aveva due figli (avrà successivamente anche sua figlia Yanuni, n.d.r.), scopre di essere incinta di nuovo, la sua battaglia assume un significato più profondo, come la sua resistenza e il suo timore per la vita del marito. Girare con Hugo ha portato nuove sfide. C’era solo un posto disponibile sull’elicottero e ho dovuto immortalare da solo, e senza interferire, le sue missioni ad alto rischio contro i cercatori d’oro illegali. Sono state alcune delle riprese più impegnative che abbia mai intrapreso. Yanuni è sia una storia d’amore che un invito all’azione.
Lei ha rischiato davvero la vita per molti suoi documentari, oltre che in Yanuni. In The Ivory Game, che ha diretto insieme a Kief Davidson, ha esposto il grande problema del bracconaggio degli elefanti in Africa, connesso al commercio illegale di avorio in Cina. Lei, Kief e membri del vostro team avete trascorso sedici mesi sotto copertura per raccontare questa storia.
Il film comincia in Africa, in Tanzania, dove Elisifa Ngowi, capo dell’intelligence della Task Force, insieme al suo team, sta conducendo un’operazione notturna per arrestare Shetani, uno dei più grandi bracconieri della regione, responsabile della morte di oltre 10mila elefanti. Allo stesso tempo, Craig Millar, responsabile della sicurezza della Big Life Foundation in Kenya, cerca di fermare il bracconaggio e di proteggere gli elefanti, lavorando giorno e notte e interagendo pure con le comunità locali. Nel frattempo, in Cina, nel più grande mercato mondiale di avorio, Andrea Costa, responsabile delle indagini di Wildleaks (ora Elephant Action League, n.d.r.), e il giornalista investigativo Hongxiang Huang vanno sotto copertura per raccogliere prove sull’importazione e la vendita illegale di avorio. Durante questa indagine abbiamo viaggiato per tutto il mondo, tra Africa, Cina, Vietnam e Londra, per denunciare questo infame e orribile traffico. Allora, nel 2016, gli elefanti erano a rischio di estinzione nel giro di dieci anni.
Come funziona la sua collaborazione con Leonardo DiCaprio?
Lui non è una di quelle star che producono per farsi pubblicità, ma è costantemente presente e crede davvero nelle cause che sostiene. È coinvolto addirittura nel processo di editing del film e nel dare i suoi consigli. Ci spinge sempre a pensare in grande, mette a disposizione tutti i suoi contatti. Al momento siamo alla ricerca di una buona distribuzione. Nel corso degli anni, con Leonardo siamo diventati amici: rispetta il fatto che io non parli troppo ma che agisca, si fida di me, perché sa che metto, come lui, il cuore e la mia anima nel mio lavoro. Miriamo a fare grandi campagne e progetti insieme.
Come ha deciso di divenire regista?
Mio padre è libanese e mia madre austriaca, sono cresciuto vicino a Vienna prima di trasferirmi a New York. Entrambi i miei genitori erano freelancer, ma non nelle arti, anche se mio padre dipingeva per diletto. Mi hanno spinto a pensare sempre fuori dagli schemi, a seguire i miei sogni e mi hanno incoraggiato a non accontentarmi di un lavoro noioso e sicuro, ma a fare quello in cui credevo.
Il suo è un business di famiglia. Sua moglie Anita, che è produttrice, lavora attivamente con lei. Nel 2015 avete fondato la vostra casa di produzione Malaika Pictures.
La nostra casa di produzione si chiama Malaika, che in Swahili significa ‘angelo’ e che è il nome della nostra prima figlia. La nostra seconda figlia si chiama Liah Felicia. I nostri sono, quindi, anche ‘progetti di famiglia’ e questo rende la realizzazione più semplice, perché non combatto le mie battaglie da solo, ma con un ottimo team di cui mi fido. Per me il mio lavoro è una missione e una decisione di vita. Spesso rischio molto, ma mia moglie è di grande supporto ed è assolutamente fondamentale quando si tratta di sicurezza operativa.
Qual è il vostro prossimo progetto?
Ho collaborato a diversi documentari con Jane Goodall, che per me è sempre stata una grande fonte di ispirazione. L’ho incontrata nel 2008 per girare Jane’s Journey e mi ha ispirato a focalizzarmi su film che abbiano un impatto sociale e ambientale. Adesso sto realizzando un nuovo film sulla sua legacy e su di lei. Ho seguito Jane per due anni, viaggiando in oltre 25 paesi, e voglio che la gente la conosca più personalmente: la Jane oltre l’icona, la donna che ho conosciuto come amica, che mi ha anche aiutato a trovare la mia strada nella vita.
L’articolo Cinema, attivismo e Amazzonia: così il documentario di Richard Ladkani diventa uno strumento di tutela ambientale è tratto da Forbes Italia.