Colombia, silenzio sulle accuse di molestie nell’Agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo: un’occasione persa
- Postato il 12 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Carla Vitantonio*
Stamane a L’Avana, dove lavoro da anni su progetti di cooperazione e aiuto umanitario, ci siamo svegliati con questa notizia: Accuse di molestie sessuali per Mario Beccia, direttore dell’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo a Bogotà. L’articolo, scritto dalla docente e giurista colombiana Ana Bejarano Ricaurte, riporta nel dettaglio le denunce di molestie sessuali a carico del Direttore. Alcune tra le dipendenti hanno denunciato le presunte molestie attraverso il meccanismo interno di salvaguardia e la decisione finale dell’Agenzia pare aver dato loro ragione, tanto che l’accusato ha ricevuto il divieto di richiedere una nuova missione per due anni. A detta di molti si tratta tuttavia di una sanzione quasi irrisoria se comparata con il danno che sarebbe stato provocato. Inoltre una recente delibera include l’ex direttore in un gruppo di funzionari cui si aumenta lo stipendio a seguito della vittoria di una selezione interna. Un obbligo di legge certo ma probabilmente non ciò che mi aspetto da un’Agenzia che vuole essere leader nella promozione dell’uguaglianza di genere.
Qui a Cuba conosciamo tutti l’Aics, tanto più che fino al 2021 la sede di Bogotà e quella dell’Avana avevano la stessa direzione. Sappiamo bene che l’Agenzia italiana ha, tra le sue linee strategiche, la promozione dell’uguaglianza di genere, in accordo non solo con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e l’Agenda 2030 (Obiettivo 05), ma anche e soprattutto con l’ambiziosissimo Gender Action Plan, il piano d’azione sull’uguaglianza di genere promosso dall’Unione Europea, che si basa su un principio semplice eppur controverso: “lead by example”. Tradotto in italiano, “guida dando l’esempio”, o ancora meglio, il personale è politico. Se pensavamo di essere scampati alle ammonizioni femministe degli anni Settanta, pensavamo proprio male, perché oggi il temuto motto ritorna con forza grazie anche ai movimenti transfemministi e decoloniali, e ci dice che sì, non è possibile tracciare una linea netta tra ciò che si predica e come si razzola.
Ricordo il terribile caso che ha travolto Oxfam nel 2018 che, invece di dare l’esempio e mettere finalmente in pratica quella tolleranza zero di cui parlano tutte le formazioni per i lavoratori e le lavoratrici del settore, cercò all’inizio di evitare lo scandalo attraverso silenzi e sanzioni minori. Questi episodi – seppur non paragonabili nella portata – potrebbero essere utilizzati per mostrare davvero cosa vuol dire promuovere la giustizia di genere a livello strutturale e invece diventano occasioni perse. Per fortuna altri molto lontani dall’Europa hanno saputo affrontare diversamente simili episodi, si sono seriamente messi in discussione e sono riusciti a ricostruirsi migliori e più forti. Ma sono ancora troppo pochi, ed è un peccato.
È un peccato perché la cooperazione internazionale sta vivendo un momento di crisi profondissima. Mentre alcuni tra i donatori più importanti scompaiono, voci dalla maggioranza globale reclamano protagonismo, e una trasformazione che spesso viene chiamata non a caso “decolonizzazione”, richiamandosi a un cambiamento nella gestione di potere e risorse simile a quello reclamato dai movimenti decoloniali nel secondo dopoguerra. La natura coloniale e intrinsecamente oppressiva di molta della cooperazione è diventata per molti un dato di fatto, e diverse tra le maggiori Ong del mondo stanno provando a trasformare il loro modus operandi applicando principi diversi: la solidarietà, l’umiltà, l’autodeterminazione e l’equità. Si mettono in discussione i meccanismi stessi del finanziamento e della rendicontazione, e si propongono pratiche alternative.
E tra i messaggi più forti spicca proprio questo: la posizionalità di ogni cooperante è l’imprescindibile luogo di partenza per ogni progetto di solidarietà. La neutralità – ce lo insegnano il Sudan, lo Yemen, il Congo e la Palestina – è un concetto dietro il quale per troppo tempo la cooperazione ha nascosto il suo potere.
Se le accuse al dottor Beccia fossero confermate, sorprenderebbe e rattristerebbe dover constatare che l’Agenzia di cooperazione di uno dei paesi membri del gruppo che promuove la Cooperazione allo Sviluppo all’interno dell’Ocse dia questi pavidi esempi, che certamente non possono essere annoverati tra quelli da seguire per chi, come me, spesso parla a giovani che cercano la propria strada lavorativa proprio nella cooperazione internazionale.
Il nostro settore è in crisi. Movimenti transnazionali come Near e Acápacá ci dicono che non possiamo più continuare a riproporre un modello di cooperazione internazionale che ha provato la sua fallacia e il suo asservimento a un potere spesso discriminatorio, razzista, escludente. Abbiamo bisogno di Agenzie che mettano in pratica a livello strutturale i principi che dicono di voler promuovere nel mondo. Abbiamo bisogno di coraggio, e di esempi da seguire, e vorremmo trovarli a casa.
*Cooperante, autrice, attivista e podcaster. Ha lavorato come capo missione per Ong internazionali in Corea del Nord, in Myanmar e a Cuba, dove vive. Nel 2022 è stata nominata Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia
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