Crisi o insolvenza? La catena del ritardo consapevole che gli imprenditori non ammettono

  • Postato il 26 luglio 2025
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C’è una narrazione che molti piccoli imprenditori si ripetono – e ripetono anche agli altri – quando le cose non vanno bene: “Stiamo attraversando un piccolo momento di crisi”. E’ una frase usata con una certa disinvoltura, talvolta per riferirsi al mancato pagamento di una rata IVA, di un fornitore o persino degli stipendi. Una frase che suona meno dolorosa di “siamo insolventi” e meno accusatoria di “abbiamo gestito male”. Ma è anche una scorciatoia pericolosa, perché annebbia il giudizio e impedisce di affrontare la realtà.

Nella mia esperienza pluridecennale di consulente di direzione aziendale, ho imparato che molti confondono la crisi con l’insolvenza non per ignoranza, ma per difesa psicologica. Riconoscere l’inefficienza è più doloroso che dare la colpa al “contesto”, al “momento” o al “mercato”. Eppure il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (Ccii) non lascia spazio a interpretazioni creative:

– La crisi è previsionale: si manifesta quando è probabile che l’impresa non riesca, nei prossimi dodici mesi, a onorare i propri impegni finanziari.
– L’insolvenza è attuale: si verifica quando l’impresa non paga più i propri debiti.

La crisi si intravede, l’insolvenza si subisce. Ma il punto è un altro: come facciamo, nella pratica quotidiana, a distinguere i due casi? Esiste un metodo? Ho messo a punto nel tempo quella che chiamo la catena del ritardo consapevole. È la sequenza con cui, quasi sempre, le imprese in difficoltà decidono consapevolmente chi far aspettare. Una mappa dei silenzi e dei rinvii, che rivela molto più di mille dichiarazioni.

La sequenza è quasi sempre la stessa.

Il primo segnale si vede spesso nell’uso degli affidamenti bancari. Le linee di credito, soprattutto quelle di cassa, che dovrebbero servire per coprire temporanei disallineamenti della gestione corrente, iniziano a essere usate in modo continuo e “a tappo”, come se fossero una fonte stabile di liquidità senza alcuna rotazione. È un campanello d’allarme importante.

Poi, quando il fiato si fa più corto, si comincia a rimandare il pagamento delle tasse. Il Fisco è visto come un creditore più “silente e gestibile”, perché ci sono strumenti come i ravvedimenti e le rateizzazioni. Ma attenzione: se servono documenti come il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva), non essere in regola può bloccare tutto.

In seguito, si iniziano a posticipare i pagamenti verso quei fornitori considerati meno essenziali per il business, come quelli che si occupano di pulizie, trasporti, cancelleria o piccoli servizi. È lì che si prova a recuperare un po’ di ossigeno, nell’illusione che si tratti solo di un momento.

Quando nemmeno questo basta, si cerca di trattare con le banche. Si chiedono sospensioni, allungamenti delle rate, dilazioni. Ma ogni volta che si fa questo tipo di operazione, la posizione dell’azienda (il rating creditizio) peggiora agli occhi degli istituti di credito, e ottenere nuovi finanziamenti diventa più difficile.

Se la situazione continua a peggiorare, arrivano i ritardi verso i fornitori strategici: quelli da cui si acquistano materie prime, energia, lavorazioni fondamentali. Qui il rischio è altissimo, perché se questi fornitori si fermano, si ferma anche l’azienda.

Il penultimo stadio è rappresentato dai debiti verso le banche. Quando si saltano le rate di mutui o leasing, le banche reagiscono rapidamente: revocano le linee, chiedono il rientro, possono avviare azioni legali.

E infine, il segnale più grave: gli stipendi non vengono più pagati. Quando si arriva a non versare i salari, la crisi non è più una possibilità futura. siamo in piena insolvenza, probabilmente irreversibile

Questa catena non è solo uno schema teorico: è una radiografia affidabile dello stato reale dell’azienda. Dimmi con chi sei insolvente, e ti dirò quanto ti resta.

La confusione tra crisi e insolvenza è prima di tutto culturale. L’imprenditore italiano medio preferisce dirsi in crisi perché la parola contiene un margine di speranza. Ma la speranza non è una strategia. E confondere i termini – soprattutto quando esistono definizioni normative chiarissime – significa evitare il confronto con la realtà. Eppure, proprio quel confronto è l’unico punto da cui può partire un vero risanamento. Non si cura una malattia finché si nega di averla.

Attenzione: riconoscere l’insolvenza non significa, però, decretare la fine. Significa finalmente avere la consapevolezza che occorre intervenire in modo chirurgico. Una temporanea difficoltà di liquidità può essere affrontata. Ma un ritardo strutturale verso fornitori strategici o banche richiede ben altre misure.

La vera domanda che ogni imprenditore dovrebbe farsi oggi non è “sono in crisi?” ma “chi sto smettendo di pagare?”. Perché nella risposta a quella domanda c’è già scritto il futuro della sua azienda.

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Il Fatto Quotidiano

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