Da Don Gallo a Vauro, la casa editrice Aliberti compie 25 anni: “La più grande minaccia all’indipendenza? Il mercato”
- Postato il 4 ottobre 2025
- Cultura
- Di Il Fatto Quotidiano
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I primi colpi negli anni del Berlusconismo, dal libro sul caso Genchi alle memorie di Patrizia D’Addario. L’ultimo sta per uscire: un libro di vignette per Gaza di Vauro, prefazione di Francesca Albanese e postfazione di Moni Ovadia. L’elenco degli oltre 2mila titoli pubblicati dalla casa editrice Aliberti dal 2001 a oggi racconta un pezzetto della storia politica e sociale d’Italia. Quella fatta di battaglie dal basso e titoli che “devono esistere a prescindere da quanto vendono”, racconta il fondatore Francesco Aliberti. C’è il romanzo “simultaneo” del collettivo guidato da Edmondo Berselli su presunti brogli alle elezioni del 2006 o l’inchiesta sulla morte di Dirk Hamer e l’assoluzione di Vittorio Emanuele. Senza dimenticare “Sono venuto per servire” di Don Gallo e Loris Mazzetti o le interviste politiche di Claudio Sabelli Fioretti. Ma anche la musica, lo sport o la comicità del “Metodo Sticazzi”. Un’avventura editoriale nata nella bassa reggiana e coronata dall’incontro con il Fatto Quotidiano, di cui è stata nell’azionariato, con Chiarelettere. Aliberti editore festeggia 25 anni il 5 ottobre con una festa dal titolo “Degustare libri”, presso la Corte Ospitale a Rubiera (RE). Tanti gli ospiti, da Luca Sommi ad Andrea Scanzi e Giovanni Lindo Ferretti. Conduce il giornalista Pierluigi Senatore.










25 anni di casa editrice, è il momento di festeggiare?
Ci sembrava una data di quelle da ricordare. Quando cominci un mestiere come questo, pensi sempre che dura finché dura.
Si parlerà di libri, ma degustando vini. Da dove nasce l’accoppiata?
Mia moglie Cecilia ha una cantina di vini a Novellara, le cantine Lombardini che compiono quest’anno 100 anni. Due ricorrenze in famiglia da celebrare: fra la presentazione di un libro e l’altra faremo aperitivi e degustazioni. Negli anni abbiamo anche brevettato la formula “Wine and Book”: vendiamo insieme un libro e un vino. Il messaggio è che, oltre al vino da mettere in tavola tutti i giorni, si può far entrare in casa anche qualche libro. Vogliamo che i libri siano conviviali e da condividere.
Quali gli appuntamenti da segnarsi?
Ci sarà una selezione dei nostri titoli: da Alberto Grandi e Andrea Casadio che presentano “In vino felicitas”, a Caterina Zamboni Russia e Sara Lucaroni che parlano di fascismi e resistenza. Ma anche Nino De Masi, l’imprenditore calabrese di Rizziconi, noto per aver denunciato la ‘ndrangheta e per la sua vita sotto scorta. E poi ci sarà l’anteprima nazionale dell’ultimo libro di Vauro: “Io sono colpevole. Gaza: il silenzio ci rende complici”. In questo momento storico sentiamo il bisogno di dare un contributo e lo facciamo con questo libro e facendo in modo che parte dei proventi vadano a Gaza.
Cosa l’ha spinta, 25 anni fa, a creare una casa editrice?
Il senso di colpa. Mi sono laureato in Italianistica a Bologna con Ezio Raimondi e l’idea di continuare la carriera accademica. Poi, rientrato da militare, ho iniziato ad aiutare mio fratello Matteo nell’agenzia immobiliare di famiglia. Sentivo però il senso di colpa di aver abbandonato i miei studi e così decido, col mio socio storico Alessandro Di Nuzzo, di fondare la casa editrice, affiancandola al lavoro. Dopo tre anni facciamo un accordo importante con Rizzoli ed entriamo nel mercato grande. A quel punto iniziamo a crescere.
Su cosa decidete di puntare?
Ci appassioniamo soprattutto all’attualità, alla politica e all’inchiesta. Erano gli anni del Berlusconismo e usciamo con “Il caso Genchi. Storia di un uomo in balìa dello Stato” di Edoardo Montolli. Facciamo il libro di Patrizia D’Addario “Gradisca presidente. Tutte le verità della escort più famosa al mondo” – da quella esperienza arriverà anche “Mignottocrazia. La sera andavamo a ministre” di Paolo Guzzanti, termine che è entrato nel dizionario Treccani – ed è proprio lì che incontriamo il Fatto Quotidiano, il più grande successo editoriale della nostra casa editrice.
Come succede?
Per caso. Al salone del libro di Torino incontro Marco Travaglio. Mi dice: “Stiamo facendo un nuovo giornale”. Io penso: perché no. Poi a Cinzia Monteverdi il merito di avermi convinto definitivamente. E da lì entro nell’azionariato e partecipo all’avventura. Dieci anni fa è nata Paper First [la casa editrice del Fatto Quotidiano, Ndr], ma all’inizio il giornale non aveva una casa editrice. C’eravamo noi e Chiarelettere tra agli azionisti. Ad esempio, in quegli anni abbiamo fatto il libro con Beatrice Borromeo su Vittorio Emanuele e la morte di Dirk Hamer scritto da sua sorella Birgit. Ci costò una querela, da cui siamo stati assolti solo da tre anni in Cassazione. Diciamo che la casa editrice, parallelamente al giornale, portava avanti le battaglie sui libri. Facevamo anche cose un po’ pazze.
Ad esempio?
Penso a D’Addario, quando decide di fare un memoriale dove svela il bunga bunga di Berlusconi. E ce lo offre per puro caso, perché la sua avvocata Maria Pia Vigilante proveniva dallo stesso paese di mio padre in Puglia e mi conosceva. E lo pubblichiamo, sostenuti dal Fatto Quotidiano. Dentro faceva proprio la cronaca minuto per minuto della notte passata con Berlusconi. Mettemmo anche un segno nero nel libro perché chi non volesse leggere i dettagli potesse saltarli. Eravamo giovani. La gente pensava: “Questi sono matti”.
25 anni di avventure.
Per me fare l’editore è un po’ un mestiere da ludopatici. Per ognuno pensi: “Questa volta arriva il bestseller”. Lo pubblichi e scommetti. E se non va, passi a un altro. E così passi tutta la vita alla ricerca del colpo, nel mentre fai un catalogo editoriale che implica scelte, sposi determinate cause e le segui. Però l’aspetto ludico c’è sempre.
Ci sono titoli più importanti di altri?
Non sempre sono quelli che hanno venduto di più. Il caso di un libro che ha venduto molto e a cui tengo tantissimo è quello di Don Gallo e Loris Mazzetti. Si intitolava “Sono venuto per servire” e ha venduto oltre 50.000 copie. Lui è anche venuto a Novellara a battezzare mio figlio, che infatti ho chiamato Andrea.
Cosa vuol dire essere un editore indipendente?
Abbiamo il grosso vantaggio che ci possiamo innamorare di un libro che alla fine magari vende poche centinaia di copie, ma che siamo orgogliosi di aver fatto. Ci sono libri che devono esistere, indipendentemente da quanto vendono. Nelle grosse industrie editoriali, questo non puoi farlo: se un titolo non ha speranze di vendita che vanno oltre una certa soglia, non lo pubblichi nemmeno se è Carlo Emilio Gadda, per dire. Ma a volte i libri ti sorprendono.
Come?
Tornano d’attualità improvvisamente. Nel 2006 abbiamo pubblicato “Ammazzare stanca” di Antonio Zagari, che è la prima autobiografia di un ’ndranghetista. Fino ad oggi aveva venduto qualche centinaio di copie. Poi, improvvisamente, un regista lo vede, Daniele Vicari, se ne innamora e ne fa un film con Mompracem e Rai Cinema. E quest’anno siamo andati alla Mostra del Cinema a vedere la prima del film tratto dal nostro libro. Farlo allora non era una scelta commerciale, ma ha pagato. A volte succede.
La casa editrice ha sempre avuto un forte legame con la terra d’origine, siete stati i primi a sostenere l’esperimento della redazione del Fatto Emilia Romagna guidata da Emiliano Liuzzi.
Fu un’idea di Gomez. Il Fatto aveva già una redazione milanese condivisa con Chiarelettere. Peter voleva sperimentare una redazione emiliana, capitanata da Emiliano Liuzzi, un fuoriclasse del giornalismo, scomparso troppo presto. Fu così che aprimmo una redazione del Fatto a Bologna in condivisione con Aliberti. Emiliano guidava un gruppo di giovani giornalisti pieni di entusiasmo e di talento: ricordo oltre a te Martina, Davide Turrini, Giulia Zaccariello e David Marceddu. Tutti diventati firme del nostro giornale. In realtà era un esperimento semiclandestino di cui il nostro Ad Giorgio Poidomani venne a conoscenza molto dopo. Si arrabbiò con benevolenza perché l’esperimento in realtà era riuscito. Da quel nucleo bolognese uscì un gruppo di bravi giornalisti, che io chiamavo “la scuola emiliana” del Fatto. Giocando sul nome di Liuizzi e sul fatto che da Emiliano davvero si andava a imparare un mestiere. Ci manca molto.
Un legame con l’Emilia che si è visto anche nella scelta dei titoli.
Agli inizi, conosco e divento amico di quel gran genio di Edmondo Berselli, e di altri venerati maestri modenesi come Leo Turrini, Andrea Delmonte e Beppe Cottafavi. Edmondo mi dice: “Ci piace molto l’idea che ci sia una casa editrice libera, indipendente in Emilia Romagna”. Così nasce questo gruppo di emiliani che facevano libri che non si potevano fare altrove. Ad esempio, pubblichiamo “Il broglio” firmato dal collettivo di scrittori, tra cui Berselli, “Agente italiano”. Denunciavano presunti brogli alle elezioni del 2006, in cui vinse Prodi per pochissime schede. Era una fiction che interpretava l’attualità politica. Uscì in contemporanea con lo spoglio e lo chiamammo romanzo simultaneo con una definizione inventata da Edmondo. Anche quel libro vendette tanto. Però, voglio precisare che non abbiamo fatto solo libri seri.
Ad esempio?
Siamo anche famosi per essere gli editori del “Metodo Sticazzi” [ride, Ndr]. La casa editrice è un luogo in cui si ride e ci si diverte. Così, quando ho conosciuto Alberto Castelvecchi, appena uscito dalla sua casa editrice, davanti a un caffè mi ha proposto questo metodo per affrontare la vita. Da lì il libro. E fu un successo da oltre 70.000 copie. Ma noi, in generale, abbiamo sempre avuto a cuore anche i libri comici. Siamo gli editori di Maurizio Milani. Di Spinoza abbiamo pubblicato fino a una trilogia, e da allora è una battuta fissa sul Fatto Quotidiano. Prendiamo sul serio ciò che è serio. Ci piace definirci i Boris dell’editoria, non ci prendiamo mai troppo sul serio.
Quanto è nero il futuro dell’editoria?
Quando abbiamo aperto il Fatto nel 2009, avevamo 49mila punti vendita, mentre oggi sono 11mila. Le librerie invece sono sempre poco meno di 4mila. Quello dei libri è un mercato costante, ed essendo sempre stato in crisi ci devi saper convivere: in Europa, leggono meno di noi solo Cipro e Romania. Però credo che il libro, come diceva Eco, sia un oggetto perfetto, come la forchetta. Non lo cambi, non lo migliori. Non è perfettibile.
E i giovani?
Anche loro preferiscono leggere la carta. Anche se stanno sui social tutto il giorno. Il libro è un momento in cui stacchi davvero dalla vita digitale. La lettura ti riconcilia con te stesso, con il pensiero.
Pensate ai lettori del futuro?
Noi facciamo innanzitutto libri che ci piacciono. Il segreto è avere cura di ogni titolo, anche sulla confezione. Dalla carta alla rilegatura, facciamo sartoria editoriale: perché poi il libro è un oggetto e deve essere godibile anche solo per il fatto di fruirlo.
Il nuovo progetto editoriale che lanciate a Rubiera è “Il Giornale dei Libri”, di cosa si tratta?
Abbiamo creato uno spazio dove parlare non solo dei nostri libri, ma anche di quelli degli altri. Indipendentemente dalle classifiche e da quello che dettano i grandi gruppi. Visto che siamo così piccoli, ci prendiamo il lusso di girare le spalle al mercato e di fare quello che ci piace. Siamo una macchina collettiva, un piccolo team coeso e aperto alle novità. Insieme a me e ad Alessandro Di Nuzzo ci sono Laura Marras, responsabile marketing, Lara Palummo, responsabile di redazione, e Siria Tagliavini, nostra addetta stampa e digital marketing. Poi ci sono i nostri editor, grafici e impaginatori e il nostro presidente del CDA, Claudio Oppizzi. Scusa l’elenco ma essendo una ricorrenza è un po’ come quando si presenta la band a un concerto.
È in pericolo l’indipendenza delle case editrici?
L’indipendenza non è a rischio per pressioni politiche. La minaccia più forte è il mercato e l’essere costretti a pubblicare cose che devono avere aspettative di vendita. E se tra gli scartati si nasconde, non dico un capolavoro, ma un libro importante, non lo pubblichi? I piccoli fanno questo lavoro di scouting. E poi, da noi, gli autori rimangono perché si creano rapporti di amicizia e di fiducia.
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