Deforestazioni, inquinamento e lavoro minorile: quanto costano i prodotti esotici ai Paesi d’origine? Lo studio

  • Postato il 26 aprile 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Quanto costano ai Paesi di origine, in termini sociali e ambientali, i prodotti esotici che arrivano ormai regolarmente sugli scaffali europei? Lo rivela un rapporto di ricerca francese pubblicato in aprile, che esamina 13 filiere alimentari di derrate importate in Francia, ma pure in Italia. Pasqua è appena passata, ma ancora circolano le uova di cioccolato, una vera passione per piccoli e grandi. Ma non per i produttori. “C’è davvero da temere che i bambini francesi trovino in giardino, per il 90%, cioccolato prodotto da altri bambini”, denunciava qualche giorno prima della festività Blaise Desbordes, direttore del marchio FairTrade Max Havelaar France, che insieme all’Institut Veblen e a Greenpeace France ha commissionato il rapporto di ricerca a Basic, cooperativa specializzata nell’analisi dei modelli di produzione e consumo, in particolare in ambito alimentare e agricolo. Il risultato è lo studio Consommation française de produits agricoles importés: quels impacts, quelles solutions, che ha esaminato 13 filiere alimentari d’import ritenute all’origine di pesanti problematiche ambientali per gli ecosistemi e di ripetute violazioni dei diritti umani.

L’impatto ecologico – Per stabilire il punteggio sono stati valutati: il clima (emissioni di gas serra), la biodiversità (superfici disboscate), la waterprint – l’impatto sull’acqua blu e quella grigia. La prima è “la quantità di acqua dolce che non torna a valle del processo produttivo nel medesimo punto in cui è stata prelevata o vi torna, ma in tempi diversi”, mentre la seconda “rappresenta il volume di acqua inquinata, quantificata come il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti al punto che la qualità delle acque torni sopra gli standard di qualità” (Ministero italiano dell’Ambiente). Dal punto di vista della deforestazione – causa di danni alla biodiversità, emissioni di Co 2 e alterazioni del clima – lo studio distingue tra filiere molto impattanti (soia, olio di palma e cacao), mediamente (caffè, riso e avocado) e poco (banane, pomodori, anacardi, zucchero, vaniglia, tè, succo di arancia e riso). Le emissioni di Co2 derivate dai trasporti sono elevate nelle filiere di prodotti freschi (banana, pomodoro, avocado), ma anche per la vaniglia e il succo di arancia. Cacao, soia e caffè incidono di più sui gas serra; soia, riso e succo di arancia consumano più acqua blu mentre cacao, soia e caffè più acqua grigia.

L’impatto socio-economico – Due i fattori considerati: le violazioni dei diritti umani in azienda con il lavoro minorile e quello forzato, oltre al non raggiungimento di un livello di vita decoroso per agricoltori e operai. “Tra le filiere d’importazione con destinazione Francia, e sempre secondo lo U.S. Department of Labor, le più soggette a casi di lavoro forzato e di lavoro infantile sono quelle dello zucchero di canna, del cacao, del caffè, dell’olio di palma, della vaniglia e del riso”. La percentuale di raggiungimento di un livello di vita decoroso va dal 40% della filiera della vaniglia all’88% del tè, passando per il 51% dell’olio di palma, il 52% dello zucchero di canna, il 72% delle banane e il 75% degli anacardi.

Le 13 filiere Cacao. Sia per le elevate quantità importate sia per il forte impatto ambientale, la filiera del cacao risulta la più impattante per il clima. Proveniente dall’Africa Occidentale (soprattutto Costa d’Avorio, primo produttore mondiale) e messo a rischio dal cambiamento climatico, nell’ultimo anno il cacao ha visto aumentare il prezzo del 135%. L’Italia è al quinto posto in Europa e al decimo nel mondo per l’importazione di fave di cacao (ComTrade 2020).
Soia. Proveniente soprattutto dal Brasile (dove per produrla vengono anche sottratte le risorse idriche ai nativi), è la filiera più impattante per la deforestazione. L’Europa impiega la soia per la produzione di mangimi e alimenti vegani e per usi energetici, ma la importa massicciamente perché la produzione interna è insufficiente: secondo un report UE del 2024, solo il 27% di quella usata nella zootecnia è prodotta nel nostro continente.
Olio di palma. Utilizzato nell’industria alimentare, arriva soprattutto dal Sudest asiatico ed è noto per il forte impatto sulla deforestazione. Essendo piuttosto denso, ne risulta costoso il trasporto: è il “10% delle emissioni totale di CO 2 della derrata”.
Vaniglia. Proveniente soprattutto dal Madagascar, presenta l’impatto più elevato per tonnellata prodotta.
Riso. Prodotto soprattutto nel Sudest asiatico, insieme al succo di arancia e alla soia è tra le colture che impiegano più acqua.
Caffè. Insieme al cacao e alla soia è la filiera più inquinante per l’acqua, a causa dell’uso elevato di pesticidi. Inoltre è tra le derrate che emettono più gas serra (le altre sono soia e cacao) a causa della deforestazione, dei procedimenti industriali di trasformazione e del trasporto.
Avocado. Si segnalano violazioni dei diritti umani nella filiera peruviana, cattive condizioni lavorative, aggressioni sessuali e accaparramento di terre.
Succo di arancia. Il suo impatto ecologico riguarda principalmente il consumo di acqua: lo stesso vale per riso, avocado e caffè.
Anacardi. Per il 70% provengono da Vietnam e Costa d’Avorio. Secondo dati Eurostat del 2022, in 10 anni l’import europeo è cresciuto di oltre il 110%. L’Italia risulta il quarto consumatore europeo.
Pomodori. “La filiera del pomodoro marocchino è nota, tra l’altro, per le aggressioni sessuali subite dalle lavoratrici, oltre che per i salari estremamente bassi”.
. La sua produzione è legata al lavoro forzato in India.
Banane. Il 46% delle emissioni di Co2 è dovuto al trasporto. “In Costa Rica sono anche documentati numerosi casi di intossicazioni e lesioni a corpo e occhi causati dal ricorso ai pesticidi”. Questi penetrano fino alla polpa, colpendo così anche il consumatore.

Quali soluzioni
Dal rapporto emerge un quadro drammatico. Ma le soluzioni ci sono. Come riportato sul suo sito, Max Havelaar France, insieme a Greenpeace e all’Institut Veblen, fa appello ai decisori per applicare rigorosamente le direttive europee sul lavoro forzato e rifiutare l’accordo Mercosur, “incompatibile con gli obiettivi europei in materia di giustizia sociale e climatica”. L’ultimo appello, da accogliere anche noi come consumatori, riguarda “il sostegno attivo alla certificazione ecologica, sociale ed equa delle importazioni” di derrate sensibili.

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