Delitto Garlasco, l’intonaco della famosa “traccia 33” è stato distrutto? Forse no: le ricerche negli archivi del Ris
- Postato il 27 maggio 2025
- Giustizia
- Di Il Fatto Quotidiano
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L’obiettivo degli inquirenti è quello di potere analizzare nuovamente la traccia, per verificare – con le tecniche e la tecnologia di oggi – se sotto vi sia del materiale biologico (come sudore, sangue o particelle di pelle) di Chiara Poggi mescolato all’impronta che la Procura di Pavia attribuisce al palmo destro di Andrea Sempio. Tutto ruota intorno alla ormai famosa “traccia numero 33“ trovata sulla seconda parete a destra, quella che accompagna la fine della scale verso la tavernetta di via Pascoli a Garlasco dove il 13 agosto 2007 fu trovato il corpo senza vita della 26enne. Riscontri che negli anni passati i Ris, con le tecniche dell’epoca, non riuscirono a ottenere, catalogandola già nel 2007 come “non utile”.
Per rianalizzare il reperto serve però quel pezzo di intonaco sul muro grattato – dove si trovava il cadavere di Chiara Poggi – e trattato con la ninidrina (diventando così rossastro) per isolare l’impronta palmare. Ma il dubbio è che possa essere stato distrutto. Perché, come si legge in due sentenze della Corte d’assise d’appello di Milano del settembre 2021 e del febbraio 2022, i “reperti” del delitto di Garlasco sono stati venduti o distrutti se privi di “valore economico”, sono stati conservati e inseriti nel “fascicolo d’ufficio” solo i “documenti“. Si legge anche che è stata disposta, dopo aver sentito i difensori della famiglia di Chiara Poggi e di Alberto Stasi, la “restituzione” di alcuni beni e la “vendita” di altri a distanza di 14 anni dall’omicidio, di 6 anni dalla sentenza definitiva di condanna per Stasi e dal tentativo di “revisione” del processo bocciato dalla Corte d’appello di Brescia e dalla Corte di Cassazione.
I pm però non demordono. Nell’elenco corpi di reato allegato alle sentenze, infatti, non compare mai la “traccia 33”. Per questo i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano stanno cercando quel pezzo di intonaco negli archivi del Ris e nel Dipartimento di medicina legale di Pavia. Nel verbale dei tecnici del Ris, datato 4 settembre 2007, mentre veniva analizzata l’importa 33 e altri reperti asportati dalla villetta di Garlasco “si dà atto che la conservazione” di questi “è buona e non sono quindi suscettibili a degradazione naturale”. In più i presenti decidono “di concordare la non rinunciabile distruzione del campione, ovvero la conservazione di quota parte del substrato merceologico”, come riporta Repubblica.
Mentre si cerca la “traccia 33”, va anche ricordato che tre anni fa il collegio – presieduto dalla giudice Ivana Caputo (giudice a latere Franca Anelli) – ha ordinato la distruzione o la vendita di tutti i “beni in sequestro” anche se “non contenuti” nell’elenco corpi di reato. La difesa Stasi, con l’avvocata Giada Bocellari, si era in parte opposta al provvedimento chiedendo e ottenendo la restituzione di alcuni oggetti fra cui: la bicicletta nera da donna “Holland”, sequestrata alla madre di Stasi nel 2014 nel processo d’appello bis, e altre due biciclette “Umberto dei Milano” e “Girardengo”, una roncola, un attrezzo metallico per la raccolta di ceneri da camino, un martello, una serie di scarpe e vestiario, materiale elettronico, fazzoletti con macchie di sangue.
Non era stata accolta invece la richiesta di “conservazione” di alcuni reperti “sottoposti ad accertamenti tecnici nel corso delle indagini, in vista di una possibile evoluzione scientifica” e per essere sottoposti a “eventuali ulteriori esami che l’evoluzione tecnico scientifica dovesse consentire di svolgere”. La legale aveva indicato in particolare magliette, orecchini, gioielli e orologi indossati da Chiara Poggi, una sedia in legno e il “tappetino del bagno al pianoterra su cui è impressa un’impronta di scarpa insanguinata” e un “frammento ritagliato” dallo stesso durante gli accertamenti irripetibili svolti nel corso dell’inchiesta. Ma anche in questo caso nessuno cita la “traccia 33”.
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