È davvero inutile andare a votare per abrogare il Jobs Act? Tre casi di licenziamenti senza reintegra

  • Postato il 23 aprile 2025
  • Blog
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 4 Visualizzazioni

di Alberto Piccinini*

Da più parti cominciano ad essere sollevati dubbi sull’utilità dell’abrogazione dell’intero decreto legislativo n. 23 del 2015 (primo degli otto decreti che fanno parte del cosiddetto Jobs Act), e quindi sul voto SÌ al quesito n. 1 dei referendum proposti dalla Cgil su varie norme del diritto del lavoro che incentivano la precarietà e rendono il lavoro meno sicuro, e meno protetto. Il primo referendum, in particolare, riguarda il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che per oltre quarant’anni (dal 1970 al 2012) aveva previsto la regola secondo la quale qualunque licenziamento posto in essere da un datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti, se dichiarato illegittimo da un giudice, dovesse dare diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro.

Questa regola nel 2012 è stata già parzialmente modificata con una riforma dell’art. 18 da parte del governo Monti (una delle famose riforme Fornero) che ha in parte ridotto ad alcune ipotesi la possibilità della reintegrazione prevedendo, per le altre, un indennizzo economico.

A distanza di soli tre anni è intervenuto però il decreto legislativo n. 23, che si è espressamente prefisso lo scopo di considerare come regola l’indennizzo e la reintegrazione come soluzione da applicarsi solo in casi eccezionali. Tuttavia, anziché abolire l’articolo 18, ne ha stabilito la “morte lenta”, disponendo che le nuove regole si applicano solo ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. In tal modo è stata introdotta una ingiustificata disuguaglianza nel mondo del lavoro tra persone che svolgono la stessa attività nello stesso luogo di lavoro con la conseguenza che, con il decorrere del tempo, i tutelati dall’articolo 18 si riducono progressivamente, come in effetti è avvenuto negli ultimi dieci anni.

Non solo: la legge Fornero del 2012 aveva introdotto una particolare procedura conciliativa nei casi di licenziamenti economici, vietando di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza aver prima attivato un tentativo di conciliazione presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro: il datore di lavoro con più di 15 addetti deve preventivamente manifestare, motivandola, l’intenzione di licenziare, e solo nel caso in cui non si sia raggiunto un accordo potrà procedere al licenziamento. Tutte queste garanzie, che hanno anche l’effetto di ridurre il contenzioso giudiziario, sono state cancellate dal Jobs Act per gli assunti dopo il 7 marzo 2015.

Ma anche nel merito esistono – e permangono – notevoli differenze di trattamento a seconda che si applichi l’art. 18 o il D. Lgs. n. 23, pur se, nel corso degli ultimi dieci anni, la Corte costituzionale ha smantellato in molti punti le previsioni di quest’ultimo.

Bastino tre esempi di licenziamenti illegittimi per i quali il decreto n.23/2015 continua ad escludere la reintegrazione: a) in caso di licenziamento disciplinare, anche dopo l’ultimo intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), a meno che il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo non preveda espressamente, per quella specifica condotta, una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro; b) in caso di licenziamento individuale per motivo economico o organizzativo, ad esempio per soppressione del posto di lavoro, anche se è provato che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repechage); c) nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia: regola, sia chiaro, che vale per i soli assunti dopo il 7 marzo 2015.

Nonostante questo, da parte di qualcuno si sottolinea che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 12 del 2025, in caso di vittoria del referendum, pur nell’ambito di un generale ampliamento delle garanzie, in alcune ipotesi di invalidità “si avrebbe, invece, un arretramento di tutela”. Ma in realtà, se è vero che esistono alcuni marginali casi di licenziamento illegittimo in cui la tutela risarcitoria del D.Lgs. 23 risulta – dopo gli interventi della Corte costituzionale – poco più vantaggiosa rispetto a quella dell’art. 18, è peraltro vero che quest’ultimo, anche dopo le modifiche apportate dalla legge Fornero, assicura la tutela reintegratoria come principio di prevalente tutela contro il licenziamento illegittimo. E questo è ben evidenziato dalla stessa sentenza della Corte costituzionale sopra richiamata, la quale, nel dichiarare ammissibile il referendum, ne ha evidenziato “la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità” la cui matrice unitaria “resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. 23/15 nella sua interezza”.

Un quesito, quindi estremamente semplice nella sua sostanza, per quanto l’elettore troverà, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, un lungo testo pieno citazioni di leggi e di sentenze…

In conclusione non c’è alcun dubbio che esprimersi con un SÌ a favore dell’abrogazione di tutto il decreto legislativo n. 23 del 2015, unitamente alle altre abrogazioni che si chiedono con gli ulteriori tre quesiti referendari promossi dalla Cgil, significherebbe lanciare un segnale forte in controtendenza rispetto ad una politica, propria degli ultimi decenni, di progressiva riduzione delle tutele del lavoro. E anche se fosse vero che il mondo del lavoro privato dipendente, oggi, non riguarda la maggioranza dei cittadini – perché ne sono esclusi gli studenti, i pensionati, i pubblici dipendenti, i liberi professionisti e i lavoratori autonomi in genere – questo non esimerebbe coloro che ne sono apparentemente estranei dal manifestare, oltre che la propria solidarietà, una scelta di civiltà.

Sarebbe una presa di posizione, diretta e personale, contro la mercificazione del lavoro, la sua precarizzazione, le carenze nella tutela della salute e della sicurezza.

*Avvocato giuslavorista “di lungo corso”, ho scritto diversi articoli e libri in materia di licenziamenti. Sono presidente dall’associazione Comma 2 – Lavoro è dignità www.comma2.it

L'articolo È davvero inutile andare a votare per abrogare il Jobs Act? Tre casi di licenziamenti senza reintegra proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti